Questo articolo è la parte 2 di 4 di uno studio di Ahmet T. Kuru sulla separazione tra ulema (studiosi islamici) e Stato nel mondo musulmano. Secondo l’autore, l’idea semplicistica che l’Islam rifiuta in modo assoluto la separazione tra religione e Stato, mentre il Cristianesimo la approva, è fuorviante.

Studiosi, governanti e mercanti

Tra l’VIII e la metà dell’XI secolo, gli ulema cercarono di mantenere la propria indipendenza finanziaria dalle autorità statali e considerarono corrotti i rapporti stretti con queste ultime. Questo atteggiamento ha un retroterra storico. A metà del VII secolo scoppiò una guerra civile tra Ali, quarto califfo e genero del Profeta, e Muawiya, governatore di Damasco. Questo e le tragedie che seguirono, tra cui la morte di migliaia di persone e l’assassinio di Ali e di suo figlio Hussein, portarono gli sciiti e molti musulmani sunniti a disilludersi sul rapporto tra potere politico e moralità religiosa.

Muawiya instaurò la prima dinastia della storia islamica – gli Omayyadi (661-750) – basata sulla persecuzione dei familiari del Profeta.  A differenza delle autorità carismatiche, personali e religiose del Profeta Maometto e dei quattro califfi che gli succedettero (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali), l’autorità di Muawiya era istituzionalizzata e in gran parte “laica”. Muawiya fu il primo nella storia dell’Islam a utilizzare un trono e delle guardie del corpo. Diversi studiosi definiscono Muawiya come il primo vero costruttore di Stati nella storia islamica e la maggior parte dei governanti omayyadi come coloro che hanno secolarizzato l’autorità politica dando priorità alla ragion di Stato.

Gli Abbasidi (750-1258) sostituirono gli Omayyadi con una sanguinosa rivoluzione. Non erano molto diversi dagli Omayyadi in termini di mancanza di effettiva legittimità religiosa.  Sia i governanti omayyadi che quelli abbasidi si definivano “califfi”, sostenendo di essere i successori del Profeta. Ma gli ulema sciiti rifiutarono in gran parte la loro legittimità, sia religiosa che politica, mentre la maggior parte degli ulema sunniti li considerava governanti politici di per sé. Per questi ulema sunniti, i veri “califfi” con legittimità religiosa erano solo i primi quattro dopo il Profeta e prima degli Omayyadi.

I disaccordi tra le autorità politiche e religiose dell’epoca erano visibili non solo nella vita di ulema sciiti come Jafar al-Sadiq, ma anche in quella di eminenti ulema sunniti come i fondatori delle quattro scuole di legge sunnite – Abu Hanifa, Malik, Shafii e Ahmad ibn Hanbal – che si rifiutarono di servire lo Stato. A causa del loro rifiuto categorico delle richieste dei governanti politici, Jafar al-Sadiq fu avvelenato, Abu Hanifa morì in prigione, Malik fu fustigato, Shafii fu arrestato e incatenato e Ibn Hanbal fu picchiato in prigione.

La storia della vita di Abu Hanifa (morto nel 767) mostra come i primi ulema insistessero sulla loro indipendenza dalle autorità politiche, anche a costo di essere puniti. Rifiutò l’offerta personale del califfo abbaside Mansur di diventare giudice perché non era qualificato. Il califfo si arrabbiò e gli diede del bugiardo. Abu Hanifa rispose che un bugiardo non poteva essere nominato giudice. Mansur giurò che gli avrebbe fatto accettare l’incarico. Anche Abu Hanifa giurò che non l’avrebbe mai accettato. Di conseguenza, Abu Hanifa fu imprigionato e poi avvelenato a morte.

È vero che alcuni ulema sunniti, come i due allievi più importanti di Abu Hanifa – Abu Yusuf e Shaybani – hanno servito lo Stato come giudici. Tuttavia, queste eccezioni non rappresentavano la norma nelle relazioni tra ulema e Stato tra l’VIII e la metà dell’XI secolo. Per non parlare di ricevere denaro e cariche, alcuni ulema si sono rifiutati persino di fare dei gesti. Un governatore dell’Asia centrale chiese a Bukhari (†870) – che sarebbe diventato il più famoso studioso di Hadith – di insegnare ai suoi figli nel suo palazzo.  Bukhari rifiutò e rispose che il sovrano poteva inviare i suoi figli al suo circolo di Hadiths. Il sovrano, irritato, lo costrinse all’esilio in un piccolo villaggio, dove morì.

Munir-ud Din Ahmed ha analizzato l’autonomia finanziaria degli ulema durante questo primo periodo. Secondo le sue parole, “un numero elevato di studiosi avrebbe rifiutato l’assistenza finanziaria delle autorità. Lo hanno fatto soprattutto per tenersi liberi da pressioni governative”. Altri storici sottolineano anche che molti dei principali ulema dell’epoca, come Ibn Hanbal e Sufyan al-Thawri, affermarono che era vietato agli ulema accettare denaro dai governanti politici.

Hayyim Cohen ha condotto l’analisi più dettagliata di questo argomento fino ad oggi. Ha esaminato 3.900 biografie di ulema dall’VIII alla metà dell’XI secolo, dall’Egitto all’Oriente, e ha scoperto che a quel tempo gli ulema erano molto diversi dal clero cristiano, perché gli ulema, ad eccezione dei giudici e di pochi altri studiosi, “operavano a titolo completamente privato, senza essere nominati né dalle autorità né da alcuna istituzione religiosa. Non ricevevano alcun emolumento e dovevano mantenersi da soli, cosa che facevano in vari modi”. La maggior parte degli ulema o delle loro famiglie lavorava nel commercio e nell’industria, in particolare come commercianti o artigiani nell’industria tessile (22%); c’era chi si occupava di alimenti (13%); commercianti vari (11%); chi vendeva o fabbricava cuoio, metalli, legno o argilla (9%); chi si occupava di ornamenti (ad esempio, gioiellieri) o profumi (8%); banchieri, cambiavalute e intermediari (5%); e librai, copiatori di libri e venditori di carta (4,5%). Alcuni ulema hanno lavorato come insegnanti (soprattutto tutor) (8%) o come investigatori di testimoni (3%). Solo una piccola parte di loro (8,5%) lavorava come dipendente pubblico.

Nella stessa ottica, Eliyahu Ashtor sottolinea il legame tra l’erudizione islamica e il commercio all’inizio dell’epoca abbaside: “Molti mercanti erano interessati alle scienze dell’Islam”. In alcuni casi, “i loro figli si dedicarono interamente alla vita accademica”. Così, “dallo studio delle raccolte arabe di biografie risulta chiaro che la maggior parte dei teologi di questo periodo apparteneva alla classe borghese, cioè erano mercanti o figli di mercanti”. Roy Mottahedeh analizza alcune zone dell’Iraq e dell’Iran sotto il dominio dei Bujid dalla metà del X alla metà dell’XI secolo, notando che gli ulema volevano prendere le distanze dal governo. Così “le famiglie i cui antenati avevano esercitato la riyasah [leadership] nella burocrazia del governo centrale o nell’esercito non hanno prodotto molti uomini di spicco della cultura religiosa”. Inoltre, all’epoca gli ulema erano un “corpo di uomini vagamente definito” che aveva “poca struttura interna” e molteplici identità e occupazioni.

L’autonomia degli ulema dai governanti politici era associata ad altre caratteristiche delle società musulmane, come la presenza di una classe mercantile influente, di una classe creativa di filosofi e di un certo livello di libertà religiosa per cristiani ed ebrei. Nessuna di queste caratteristiche esisteva all’epoca nelle società dell’Europa occidentale.

Musulmani, cristiani, ebrei e Stato

Sotto gli Omayyadi e gli Abbasidi, la mancanza di un’autorità religiosa gerarchica portò alla nascita di numerose interpretazioni sunnite e sciite dell’Islam. Nel suo noto libro, Shahristani (morto nel 1153) analizza le religioni del suo tempo. Egli classifica 73 sette diverse all’interno dell’Islam.

A quel tempo, le comunità non musulmane, in particolare i cristiani e gli ebrei, erano attive nella vita socio-economica. In The Islamic Renaissance, Adam Mez spiega che queste comunità erano persino coinvolte nel governo: durante il X secolo, alcuni cristiani ed ebrei lavoravano come burocrati nello Stato abbaside. Mez nota anche che a Baghdad i musulmani si sono uniti alle celebrazioni cristiane. Nel IX secolo, alcuni califfi ordinarono ai sudditi protetti (per lo più cristiani ed ebrei) di mostrare il loro status sociale inferiore con determinati codici di abbigliamento e veicoli, come cavalcare muli e asini invece di cavalli. In pratica, però, queste misure non sono state applicate in modo efficace. Per tutto il X secolo, queste regole rimasero in gran parte “dormienti”. Con l’ascesa dell’ortodossia nell’XI secolo, vennero nuovamente prese sul serio.

Questa diversità e relativa tolleranza non era limitata a Baghdad. Secondo Shelomo Goitein, i documenti della Geniza (ritrovati in una sinagoga del Vecchio Cairo e che forniscono informazioni sui commercianti ebrei in terra musulmana) rivelano che al Cairo, a Damasco e a Gerusalemme “le case degli ebrei spesso confinavano con quelle dei musulmani o dei cristiani, o con entrambe. Non c’era un ghetto, ma esistevano, al contrario, molte opportunità di scambio quotidiano. Non esisteva nemmeno un ghetto occupazionale.

La diversità religiosa e la tolleranza non significavano assenza di persecuzione religiosa, anche per alcuni musulmani. Ad esempio, durante il periodo della mihna (inquisizione) tra l’833 e l’848, tre califfi abbasidi consecutivi costrinsero i funzionari statali e gli ulema a confermare l’idea razionalista che il Corano fosse una creazione di Dio, piuttosto che il suo discorso eterno e increato. Alcuni ulema di spicco, come Ibn Hanbal (morto nell’855), si rifiutarono di obbedire, nonostante le minacce di punizione e persino di esecuzione. Durante la mihna, “le fonti elencano un totale di 48 persone che sono state sottoposte a interrogatorio ufficiale”.

Le azioni spesso creano reazioni. Questa inquisizione razionalista era controproducente e rese popolari gli studiosi letteralisti, in particolare Ibn Hanbal.

Gli articoli successivi esamineranno come e perché un’ortodossia letteralista abbia dominato il mondo musulmano dopo la metà dell’XI secolo. In primo luogo, accennerò brevemente alle connessioni tra la libertà religiosa e la creatività intellettuale ed economica.

– Continuerà –

Data la sua lunghezza e il suo interesse, pubblicheremo in quattro parti questo interessante studio di Ahmet T. Kuru, professore di scienze politiche presso la San Diego State University negli Stati Uniti.

La prima parte è disponibile a questo link.

Traduzione dall’inglese di Raffaella Forzati. Revisione di Thomas Schmid.