«Nessuno Stato costiero può vietare i soccorsi multipli, soprattutto se le autorita marittime nazionali sono avvertite tempestivamente, come nel caso dell’Italia, delle attività di salvataggio in acque internazionali delle ONG, ma poi non comunicano immediatamente di assumere il coordinamento delle attività SAR, continuando a negare la ricorrenza di una situazione di distress o nascondendosi dietro i conflitti di competenza con Malta»

 

1. Mentre il Decreto legge contro i soccorsi in mare operati dalle ONG, approvato dal Consiglio dei ministri mercoledì 28 dicembre non viene ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, probabilmente perché ci stanno ancora lavorando per ottenere la firma del Presidente della Repubblica, di fronte al coro di critiche che si sono levate contro un provvedimento che viola la Costituzione ed il diritto internazionale, mettendo a rischio migliaia di vite, riparte la macchina del fango delle destre che non trovano un solo argomento giuridico o politico per difendere un decreto legge che segna la cifra identitaria del governo Meloni.

Lo stesso decreto si basa peraltro su presupposti ideologici che si cerca di trasformare, anche contro l’evidenza dei fatti, in regole giuridiche vincolanti, come la lotta ai “taxi del mare” e su dati di fatto, come i rapporti segreti di Frontex sul cd. pull factor ( fattore di attrazione) o sulle “consegne concordate” , che sono stati sconfessati dalla prevalente giurisprudenza italiana e persino dalla Commissione europea e dal Parlamento europeo. Che ha messo sotto accusa l’agenzia Frontex per comportamenti poco trasparenti e per il sostegno offerto agli Stati terzi nei respingimenti collettivi illegali alle frontiere esterne dell’Unione Europea.

L’indirizzo politico del nuovo decreto legge è evidente, un codice di condotta imposto per leggeper creare i presupposti di violazioni il cui accertamento, affidato ai prefetti, potrebbe portare alla confisca delle navi, e forse anche a nuove denunce penali, una netta inversione di rotta, dopo il fallimento dei provvedimenti amministrativi con cui il ministro dell’interno Piantedosi voleva limitare le attività di ricerca e salvataggio delle ONG impegnate nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.

Le nuove norme adottate il 28 dicembre dal governo, se non saranno modificate prima della firma del Presidente della Repubblica, o nel corso dell’iter parlamentare per la conversione del Decreto, smentiscono le linee di fondo della difesa di Salvini nel processo sul caso Open Arms a Palermo. Un processo che si gioca per intero sulla criminalizzazione dei soccorsi operati dalle ONG e su una interpretazione distorcente dell’art.19 della Convenzione UNCLOS e quindi sulla legittimità del divieto di ingresso imposto dall’ex ministro dell’interno nell’agosto del 2019, anche dopo il decreto del TAR Lazio che ne sospendeva l’efficacia. Si riconosce in definitiva, come peraltro impongono le Convenzioni internazionali di diritto del mare ed il Regolamento Frontex n.656 del 2014, che il transito attraverso le acque territoriali per sbarcare i naufraghi in un porto sicuro ha carattere di passaggio “inoffensivo”. Anche se poi, con un autentica piroetta logica, si dettano le condizioni per vietare l’ingresso della nave del soccorso civile che abbia operato in modo “non occasionale” ed abbia effettuato “soccorsi plurimi”. In ogni caso si estende l’area di responsabilità delle autorità italiane in acque internazionali e si riconoscono precisi obblighi di garantire un porto sicuro di sbarco in Italia.

Dal principio degli “sbarchi selettivi” si passa però ai “soccorsi selettivi” per decreto. Una svolta che ripugna alla coscienza di qualsiasi comandante, e di chiunque anteponga i valori del’umanità e dello Stato di diritto all’ideologia nazionalista ed identitaria. Una svolta che viola il valore primario della salvaguardia della vita umana, affermato dalle Convenzioni internazionali, dai Regolamenti europei, ed anche dal Protocollo addizionale contro il trafico di esseri umani, approvato nel 2000 a Palermo con la Convenzione ONU contro il crimine transnazionale, troppo spesso citato a sproposito, per legittimare accordi con paesi che non rispettano i diritti umani e misure illegali di contrasto dei soccorsi umanitari in acque internazionali. Secondo l’articolo 16 del Protocollo ONU, ogni Stato Parte prende, compatibilmente con i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale, misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone vittime di traffico di esseri umani, garantendo in particolare il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri trattamenti o pene inumani o degradanti. Se si insiste tanto sulle cifre pagate ai trafficanti o sul ruolo di complicità che si vorrebbe attribuire alle Ong, se si legittimano accordi con paesi terzi per contrastare “l’immigrazione clandestina” e “difendere i confini nazionali”, non si vede come si possano violare norme internazionali come quelle contenute nel Protocollo Onu contro il traffico di esseri umani, per imporre alle Ong una sottomissione ad “autorità competenti” che non sono in grado di garantire salvataggi tempestivi in mare e porti sicuri di sbarco.

In base alle Clausole di salvaguardia imposte dall’art. 19 , nessuna disposizione dello stesso Protocollo “pregiudica diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento”. Si prevede inoltre che le misure previste contro il traffico di esseri umani siano “interpretate ed applicate in modo non discriminatorio alle persone sulla base del fatto che sono oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. L’interpretazione e l’applicazione di tali misure è coerente con i princìpi internazionalmente riconosciuti della non discriminazione“.

 

2. I requisiti per la legittimità dei soccorsi operati da navi private, previsti dal nuovo decreto, sono in contrasto con il Regolamento Dublino III del 2013 sulla competenza del primo paese di ingresso per l’esame delle domande di protezione internazionale, e con quanto previsto dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea dell’1 agosto scorso,  secondo cui le navi delle ONG non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato che è obbligato a garantire il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione. Come non potrà più avvenire in futuro.

Nessuna norma internazionale o di Regolamenti europei consente ad uno Stato costiero di adottare perscrizioni discriminatorie soltanto nei confronti delle navi che effettuano “in via non occasionale attività di ricerca e soccorso in mare“. Gli obblighi di soccorso a carico dei comandanti ed a carico degli Stati costieri sono gli stessi senza che rilevi il carattere “non occasionale” delle attività di ricerca e salvataggio (SAR), richiamo che mira soltanto a penalizzare i soccorsi umanitari operati dalle ONG. Un Decreto legge non può modificare gli obblighi di ricerca e soccorso previsti a carico dei comandanti e degli Stati costieri, e se in contrasto con quanto previsto dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento europeo n.656 del 2014, risulta di conseguenza incostituzionale per violazione degli articoli 2,3,10 e 117 della Costituzione italiana.

Le prescrizioni internazionali e le linee guida dell’UNHCR escludono espressamente che i comandanti delle navi, oltre a ricevere eventuali manifestazioni di volontà di chiedere protezione da parte dei naufraghi, siano tenuti ad ulteriori adempimenti, o ad inoltrare richieste di asilo allo Stato di bandiera, prassi che è stata esclusa di recente da esplicite dichiarazioni dei governi di Spagna, Francia, Germania e Norvegia, oltre che dalla Commissione Europea, in occasione dei casi SOS Humanity 1 e Geo Barents, lo scorso novembre a Catania, quando il governo italiano tentava di imporre la pratica illegale degli sbarchi selettivi, pratica che con l’ultimo decreto viene evidentemente abbandonata.

 

3. Non è certo un caso se nello stesso giorno in cui in Consiglio dei ministri si approvava il nuovo Decreto legge, si intensificavano i contatti per rafforzare la collaborazione con le autorità di Tripoli. Appare evidente come il governo Meloni voglia spingere ulteriormente sulla collaborazione con la sedicente “Guardia costiera libica” nelle sue varie articolazioni, e sulle prassi di “respingimenti collettivi su delega”,recentemente oggetto di una denuncia alla Corte penale internazionale.

La ripartizione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale non tiene conto che alcuni paesi come la Libia e la Tunisia non garantiscono per i naufraghi di diversa nazionalità porti sicuri di sbarco e procedure eque ed accessibili per il riconoscimento dello status di rifugiato. Malta non ha ratificato l’emendamento alla Convenzione SAR di Amburgo contenuto nella Risoluzione IMO 167-78 del 2004 e dunque non può essere considerata come un paese al quale il comandante della nave che effettua un, soccorso nella vastissima zona SAR attribuita alle autorità di La Valletta, possa essere obbligato a rivolgersi per chiedere coordinamento di soccorsi operati in acque internazionali o l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro.

Nell’ applicazione delle norme cogenti derivanti da queste Convenzioni occorre anche considerare la Convenzione di Ginevra del 1951 a tutela dei rifugiati perché da questa Convenzione si ricava il fondamentale principio di non respingimento (articolo 33) secondo il quale nessuna persona può essere respinta verso un paese nel quale rischia la vita o la integrità fisica. Questa norma, se incrociata con le prescrizioni di diritto internazionale del mare, assume particolare rilievo quando si pensa che nel Mediterraneo centrale la maggior parte delle attività di respingimento, adesso delegate alla sedicente Guardia Costiera Libica e in parte promosse anche dalle autorità di Malta, che hanno stipulato appositi accordi con il governo di Tripoli, sono attività che hanno come target persone in fuga dalla Libia dove hanno subito abusi di ogni genere e dove questi abusi ritroveranno se saranno riportate indietro, magari con la collaborazione delle autorità italiane, maltesi o europee. Secondo le fonti internazionali, da interpretare alla luce della pronuncia della Cassazione sul caso Rackete, e poi della successiva sentenza della stessa Corte sul caso Vos Thalassa, che si dovrebbero leggere bene, per quello che affermano con valenza generale in sede di legittimità, al di là dei casi specifici che trattano, la Libia e la Tunisia, ma anche Malta, non sono in grado di garantire tempestivamente place of safety.