Ieri, venerdì 13 maggio 2022, si è tenuta a Palermo la terza udienza del processo che vede imputato l’ex Ministro degli Interni, Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Chiamati a testimoniare in aula la Dott.ssa Valeria Di Natale, medico che effettuò un’ispezione a bordo all’epoca dei fatti, il Dr. Fabrizio Mancini, Direttore del Servizio Immigrazione presso la Direzione Centrale dell’Immigrazione e Anabel Montes, Capo Missione Open Arms durante la Missione 65.

Un’udienza particolare quella di ieri, che ha messo in evidenza la confusione e l’approssimazione con cui ci si accosta a temi delicati e fondamentali come il soccorso in mare, il rispetto dei diritti umani e in generale la tutela della vita. 

Il Dr Mancini è apparso molto disorientato, non in grado di rispondere alle maggior parte delle domande poste dal PM e dagli avvocati di parte civile perché “ignaro” di quel che accadeva all’interno della direzione di cui era responsabile. Il Dottor Mancini non conosceva, a suo dire, i protocolli, modificati nel 2019, che regolavano l’assegnazione di un porto di sbarco e le modalità di comunicazione tra i suoi uffici e il Gabinetto del Ministro.

Davvero singolare è apparso poi il suo racconto su un presunto video, girato all’epoca dei fatti, da un sottomarino della Marina militare italiana, di cui però non ha saputo fornire particolari, portatogli in visione per una presunta “cortesia istituzionale” di cui però il testimone non sa spiegare la necessità, da tre militari della Marina italiana, di cui però non ricorda il nome.

Anche la linea difensiva dell’ex Ministro Salvini appare davvero frammentaria. La Capo Missione di allora, Anabel Montes, è stata costretta a spiegare più di una volta all’Avvocata Bongiorno i criteri fondamentali che regolano il soccorso in mare, nonché le Convenzioni internazionali che impongono il rispetto dei diritti umani e che sono alla base delle nostre moderne democrazie.

I naufraghi vanni soccorsi nel più breve tempo possibile, il soccorso termina con lo sbarco dei naufraghi nel “porto sicuro più vicino”, non è lo stato di bandiera a dover coordinare un soccorso, ma piuttosto i paesi costieri che sono competenti dell’area in cui il soccorso è avvenuto.

Un altro elemento che è sembrato sfuggire alla Difesa è il ruolo che la Libia ha avuto in questi anni. Un paese illiberale, in mano a milizie armate, non può essere, per nessuna ragione,  considerato un porto sicuro. Le persone che incontriamo fuggono dai centri di detenzione libici nei quali secondo UNHCR “subiscono violenze indicibili”. Anche qui a venirci in aiuto è il diritto internazionale che vieta la possibilità di un respingimento.

Insomma, siamo soddisfatti di aver potuto ribadire, ancora una volta, di aver sempre operato nel rispetto della legge, del diritto internazionale, del diritto del mare, della nostra Costituzione, ma non possiamo non interrogarci sullo stato di salute delle nostre democrazie ricordando che non siamo noi ad essere sotto processo, ma un ex ministro che ha lasciato 147 persone vulnerabili, donne, bambini, uomini ad attendere 20 giorni in mare prima che potessero vedere riconosciuti i propri diritti.

La legge stabilisce responsabilità e obblighi; ci stupisce che chi dovrebbe conoscerne meglio i principi fondamentali ne dimentichi il significato più profondo.