I richiedenti asilo che viaggiano verso l’Europa attraverso rotte migratorie irregolari dopo il loro arrivo si affidano spesso all’assistenza di avvocati, ONG e volontari. Attingendo a una ricerca condotta in Grecia, Gemma Bird descrive in dettaglio i rischi che individui e organizzazioni corrono nel loro sforzo di fornire supporto.

Una maggiore attenzione viene ora rivolta all’attività illegale dei respingimenti, la pratica forzata, pericolosa e spesso mortale di impedire l’accesso all’asilo ai confini di uno Stato. Tuttavia, è vitale riconoscere anche i crescenti rischi affrontati da avvocati, ONG e attivisti che lavorano per sostenere i richiedenti asilo.

La criminalizzazione dell’azione umanitaria non è affatto una novità, con salvataggi in mare che hanno portato ad arresti e rifugiati costretti a guidare le barche su cui stavano fuggendo per salvare la vita di altri e poi accusati di essere dei trafficanti. Le comunità colpite, gli attivisti, i giornalisti e gli accademici hanno continuato a denunciare la violenza e la criminalizzazione ai confini dell’Europa e altrove. In questo articolo mi concentro sull’esempio specifico della Grecia.

Nel maggio 2021, il Consiglio d’Europa ha spinto la Grecia a indagare su una serie di presunti respingimenti nel Mare Egeo. Si sono verificate continue dispute tra Grecia e Turchia sulle responsabilità di entrambi i paesi ai loro confini terrestri e marittimi. Intanto si continuano a perdere vite umane e ONG, attivisti e avvocati si ritrovano in condizioni sempre più difficili per la loro opera di sensibilizzazione e lotta contro i respingimenti e i più ampi casi di violenza di confine, rischiando di essere a loro volta criminalizzati.

Gruppi attivi nell’Egeo sottolineano quanto sia ostile l’ambiente, sia per le persone in movimento che per quelle che lavorano per sostenerle. Una persona mi ha detto che l’obiettivo è quello di “mettere a tacere chi lavora con le comunità di sfollati… e criminalizzare chi parla di trattamenti disumani”. Questo si può vedere, per esempio, sull’isola di Samos, dove nel settembre 2021 è stato aperto un nuovo Centro ad accesso chiuso e controllato (CCAC) – un nuovo modello di accoglienza nelle regioni di confine della Grecia.

Il CCAC si trova in una parte remota dell’isola, circondato da recinzioni di filo spinato, con cancelli all’entrata e complicate procedure di uscita. Si trova a più di 7 km da Vathy, la città principale dell’isola, in una regione montuosa. Prima dell’apertura del CCAC, i richiedenti asilo erano ospitati nel Centro di accoglienza e identificazione situato vicino alla città. Le condizioni nel campo erano spaventose, con ripari di fortuna inadatti alle condizioni atmosferiche, strutture insalubri e cibo spesso immangiabile, ma la sua ubicazione garantiva almeno l’accesso al supporto delle ONG che avevano sede nella città.

Nel corso degli anni questo appoggio ha compreso una cucina e un ristorante, un centro per le donne, vari centri educativi e comunitari e spazi per le distribuzioni. Lo spostamento verso un ulteriore isolamento e l’affidamento a strutture “simili a una prigione” è solo un aspetto della criminalizzazione e del senso di estraneità che i richiedenti asilo devono affrontare in Grecia. Questo è un altro approccio che allontana ed esclude i migranti dalla comunità locale e dalle reti di supporto.

Allo stesso tempo, un attivista mi ha ricordato che le ONG e gli attivisti si trovano in posizioni difficili e affrontano rischi crescenti di criminalizzazione. Ogni giorno si svegliano e affrontano un dilemma: stanno “cercando di fare qualcosa” all’interno del sistema per sostenere chi ne viene danneggiato, ma allo stesso tempo sono consapevoli dei rischi, non solo per se stessi, ma anche per le persone che stanno sostenendo, migranti spesso costretti a vivere in condizioni terribili, “come in una prigione“, all’interno dei campi e dei centri di accoglienza.

Senza il sostegno delle ONG, le persone all’interno del sistema di asilo si troverebbero ad affrontare situazioni ancora peggiori, con un accesso estremamente limitato all’assistenza sanitaria, all’istruzione e alle attività gestite dalla comunità. È quindi vitale assicurare che le ONG continuino a fornire tale sostegno. La questione è come farlo in un ambiente sempre più ostile, oltre a denunciare con forza le politiche e le attività dello Stato.

Un elemento chiave di cui tenere conto, che mi è stato ricordato da una persona attiva in queste reti di sostegno, è che “da una prospettiva esterna, è difficile capire quanto il sistema sia diventato ostile. È imperativo sostenere la comunità [dei migranti] e i suoi alleati e resistere all’atmosfera di paura che viene coltivata”. Questo compito non riguarda solo chi lavora sul campo, ma anche le comunità più ampie in Grecia, nell’Unione Europea e a livello internazionale.

Mentre i giornalisti continuano ad evidenziare il presunto ruolo degli attori statali e internazionali nell’attività illegale dei respingimenti, spetta alla comunità internazionale condannare queste attività e assicurare che i diritti umani dei migranti vengano rispettati. È fondamentale anche ascoltare e sostenere gli attivisti che forniscono supporto immediato alle persone colpite da queste politiche, continuare a sostenere a livello nazionale e internazionale soluzioni sostenibili a lungo termine e politiche migratorie umane, raccogliere prove di abusi, comprese le testimonianze di chi ha sperimentato i respingimenti e denunciare i fallimenti di un sistema che mette a rischio i diritti e le vite delle persone.

Articolo originale

Traduzione dall’inglese di Anna Polo