Avevamo intervistato Laura Quagliuolo nell’agosto scorso, quando tutti parlavano di Afghanistan, mentre ora il silenzio è calato sull’Afghanistan e gli altri conflitti nel mondo, come quello in Yemen. Torniamo a parlare con lei per sapere cosa è successo nel frattempo.

Iniziamo dalla situazione politica

In Afghanistan i talebani hanno preso il potere in tutto il paese, le sacche di resistenza militare sono dovute all’Isis Corazan, uno dei rami locali dell’Isis. Vi sono stati diversi attentati, compreso quello all’aeroporto, quando ad agosto le persone cercavano di scappare. Dal Panshir, dove vive una popolazione tra le più povere del paese, i signori della guerra dell’Alleanza del Nord che hanno governato il paese nei venti anni di occupazione degli USA e della NATO avevano minacciato una ritorsione. Dicevano di voler tornare per riconquistare l’Afghanistan, ma poi, tutti comodi con i soldi che si sono intascati, loro e le loro famiglie, si sono dileguati.

La resistenza viene dalla popolazione, dalle persone, dalle donne in particolare e la repressione cresce. I talebani cercano un riconoscimento internazionale che è parzialmente avvenuto e nel frattempo reprimono ogni giorno di più, nel silenzio.

Cosa puoi dirci dell’accoglienza agli afghani in fuga?

All’inizio c’è stata una buona attenzione, anche in Italia, ma ora è molto calata e chi cerca di lasciare il paese può provare andando in Pakistan, dove però un visto per poter restare può costare 6-700 dollari. La corruzione impazza e le frontiere tra Pakistan e Afghanistan sono una specie di inferno. I talebani dicono “Non si esce più!”, quindi minacce e botte arrivano da una parte e dall’altra.

Il Pakistan concede un visto per un mese, sta a te riuscire poi a contattare un’ambasciata occidentale per poter proseguire il viaggio. Cose lunghe e costose, i racconti sono durissimi. Le porte non sono affatto aperte, tanto meno verso l’Iran (dove, per esempio, quando c’è stato il Covid hanno preso tutti gli immigrati afghani e li hanno rispediti indietro). Gli afghani sono intrappolati nel loro paese.

Com’è la situazione nel paese?

In Afghanistan la disoccupazione è enorme, le scuole sono chiuse e gli insegnanti scappati, la poverissima economia è ferma, i prezzi sono alle stelle, la miseria dilaga. Dai dati dell’ONU il 94% della popolazione afghana non solo è sotto il livello di povertà, ma è a rischio fame. Gli ospedali sono pieni di bambini denutriti, non c’è nulla che faccia pensare a un miglioramento. L’Occidente ha chiuso i cordoni della borsa; d’altra parte sono le nostre stesse compagne che non vogliono che vengano dati soldi ai talebani. Servirebbero sono a sfamare ed armare le loro milizie.

Adesso stanno arrivando tante ONG islamiche da paesi “amici”: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Turchia. Temo che molti progetti siano costruzioni di madrase dove tenere i bambini, magari sfamarli, ma anche indottrinarli.

Cosa fanno le vostre amiche di Rawa?

Siamo riuscite a raccogliere un po’ di fondi e trovare canali per inviarli, permettendo loro di continuare con piccoli progetti: scuole clandestine per le ragazze, in case private, (ragazze che dopo la scuola primaria non avrebbero più accesso alla scuola) e grosse distribuzioni di cibo, cosa molto pericolosa. Sappiamo che quest’ultimo non è un progetto di sviluppo, ma in Afghanistan, ora la prima cosa è sfamare la gente. Hanno organizzato una scuola clandestina di taglio e cucito; hanno trovato il posto, le insegnanti, 40 donne che lo frequentassero, comprato le macchine da cucire e alla fine del corso hanno regalato la macchina alle donne. Un altro gruppo seguiva delle case per donne maltrattate (usare violenza su una donna non è più un reato in Afghanistan); queste case sono state chiuse e ora il gruppo cerca di supportare le donne a casa loro, cosa per nulla facile. Ora vogliono ripartire con delle case piccole, con due o tre donne, vittime di violenza e i loro figli.

La piccola cooperativa di 12 donne che aveva un campo di zafferano c’è ancora, in una zona meno talebanizzata. Nelle campagne vengono distribuite capre alle vedove, come fonte di un minimo reddito. Piccole gocce di resistenza, fatte da una rete che ha oramai un’esperienza trentennale. Certo, la popolazione afghana è composta da 40 milioni di abitanti, ci vorrebbe ben altro.

Qualcuna di voi è riuscita ad andare da agosto ad oggi?

No. Diciamo che ora è possibile e gli attentati e gli scontri sono sicuramente diminuiti. Giornalisti ultimamente ne sono andati, anche della Rai, ma noi, appoggiandoci ai nostri compagni e compagne, rischiamo di metterli seriamente in difficoltà. Le esporremmo troppo.

Riceviamo costantemente dei report su come procedono le tante attività, tra mille difficoltà, ma resistono con grande forza e coraggio. Sono per esempio riuscite a celebrare l’8 marzo in forma molto segreta, ma significativa, così come l’anniversario dell’uccisione della loro fondatrice Meena e hanno chiesto e ricevuto messaggi di solidarietà dal mondo. Se prima facevano eventi con 2.000 donne, ora arrivano a 50-60, 100 al massimo, non possono esporsi di più.

Anche il 21 marzo sono riuscite a celebrare il Nawroz, che continua a essere una festa di resistenza, chiaramente negata e repressa dai talebani.

Il 23 marzo i talebani, che avevano promesso di riaprire le scuole femminili, hanno dichiarato che dopo la classe sesta (equivalente alla nostra scuola primaria)le ragazze non possono andare a scuola perché le divise che usano non sono conformi alle regole di comportamento; le ragazze hanno protestato pubblicamente.

Qualche giorno fa a Bamyan, una zona hazara, un’etnia da sempre presa di mira, i talebani volevano fare una conferenza e le ragazze sono entrate nella sala e hanno strappato i manifesti.

Ma è stata una forma di resistenza anche solo “festeggiare” San Valentino; si imponeva di togliere i cuoricini, i palloncini e i fiori esposti; la gente lo faceva e poi li rimetteva.

I talebani continuano a reprimere, a fare rastrellamenti, soprattutto nei confronti delle donne che protestano; non vengono “arrestate subito”, ma cercate dopo. Vanno casa per casa a prenderle per arrestarle, torturarle, trattenerle. Cercano chi ha cooperato col governo precedente, ma soprattutto prendono di mira tutte le donne che protestano, anche solo perché si spostano senza che un maschio le accompagni, o portano i jeans e non si coprono il volto.

Le televisioni che esistevano, anche se non erano il massimo, non ci sono più.

E Internet?

Si, riescono ad usarlo con deboli connessioni, e bisogna usare sistemi il più possibile protetti. Le compagne di Rawa hanno una pagina Facebook e un sito; io non so da dove li gestiscano, ma sono molto abili. E poi ci sono i cellulari: quando i talebani governarono, nel periodo 1996-2001, non c’erano. Oggi ce li hanno in tanti e tante, soprattutto nelle città e questo aiuta. Per questa ragione non arrestano e reprimono le donne in piazza: qualcuno potrebbe riprendere la scena.

Quanto consenso hanno i talebani?

Da quello che ci dicono hanno sicuramente più consenso del governo precedente, che lo aveva perso del tutto. Con i talebani in fondo è “tornata la pace”, con le loro regole. Dall’altra parte però la gente è affamata, c’è una crisi economica spaventosa. All’inizio c’erano state manifestazioni di piazza potenti, con la bandiera afghana, il tricolore che i talebani hanno soppiantato con la bandiera bianca con scritta nera. Ora quelle grandi manifestazioni non ci sono più. Direi che i talebani non godano di un grande consenso, ma è anche molto difficile che le persone si sollevino ed esprimano il dissenso chiaramente. I rischi sono quelli di “balcanizzazione”, con scontri tra le varie etnie, mentre nei progetti delle nostre compagne c’è sempre stato l’intento di superare le differenze.

Rawa era comunque clandestina anche prima. Ora lo è ancora di più?

Il rischio è senz’altro più alto, ma loro sono attrezzate da sempre, da quando sono nate nel 1977. Molte di loro sono state uccise. A suo tempo ripresero l’uccisione di una donna, Zarmina, da parte dei talebani, che le spararono allo stadio; quelle immagini furono usate anche da Amnesty International e fecero il giro del mondo. Facevano azioni del genere con una grande capacità di nascondersi e proteggersi, sapendo che il rischio era enorme. Sono attrezzate per lavorare in clandestinità. I progetti in questi anni e ora ancora di più, sono con altri nomi, o senza nome.

Cosa vi chiedono?

Intanto ci chiedono di tenere acceso il faro sull’Afghanistan, mantenere viva e unita la rete di gruppi, associazioni, municipalità persone, che seguono quello che avviene da loro e sono pronti a mobilitarsi se fosse necessario, di organizzare incontri ed eventi. Stiamo preparando una petizione che lanceremo presto per chiedere il riconoscimento delle forze democratiche afghane e non del governo dei talebani. E poi continuiamo a raccogliere fondi per loro, per progetti ben documentati.

Come vivi la sproporzione tra guerre “mediatizzate” e guerre dimenticate?

Molto male. Mi rendo ben conto di quello che avviene in Ucraina, anche per le sue possibili ripercussioni a livello mondiale, e quindi “l’attenzione” è giustificata; molto meno lo strombazzamento di guerra che si sta facendo.

Poi c’è il discorso sui migranti a due velocità: chi ha canali rapidi e accoglienza sicura, chi fa viaggi pazzeschi e rischia la vita, oltre a poter essere respinto quando arriva. Tutti e tutte dovrebbero esseri accolti allo stesso modo, arrivando da situazioni diverse, ma sempre disperate e terribili.

I tempi in arrivo ci preoccupano e molto; dovremo organizzarci dal basso, presto e bene.

Il Cisda va avanti a spron battuto e andiamo ovunque ce lo chiedano a parlare di Afghanistan.

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