Questa intervista nasce da una conversazione telefonica che ha curiosamente messo in contatto Andrea De Lotto e Manfredo Pavoni Gay, due coetanei e colleghi presso due CPIA, Centri Provinciali Istruzione Adulti.

Andrea De Lotto: Manfredo, puoi presentarti e raccontarci la tua esperienza?

Manfredo Pavoni Gay:

Sono nato nel ’64, mi sono sempre occupato di politica, che ho respirato già da ragazzino quando negli anni ‘70 vivevo a Cinisello Balsamo in una comune dove erano stati accolti molti profughi dal Cile. Nel passato ho scritto per Carta, Cantieri Sociali, Rinascita, ho lavorato per un periodo alla cooperazione internazionale nella regione Lazio, mi sono occupato della repressione in America latina, il Plan Condor, ora sono insegnante presso un CPIA, insegno italiano agli immigrati, a Pinerolo.

Ho pensato, come insegnante e militante dell’ARCI di Pinerolo, che avesse senso venire qui (in Ucraina, ndr) e ho chiesto un’aspettativa. Abbiamo organizzato una carovana con due pullman di aiuti e una macchina, loro sono tornati e io sono rimasto qua. Ora sto aspettando: attraverso l’operazione Colomba dovrei aiutare una famiglia ucraina a venire in Italia, ospite presso la diaconia valdese. Domani dovrei finalmente incontrarla e partire con la mia vecchia Dacia Logan.

Passeggiando in centro a Leopoli

Sono d’accordo con quanto ha scritto Benedetta: i media italiani ed europei tendono a drammatizzare la situazione per polarizzare il conflitto, forse in vista di una prossima guerra. La situazione qui è molto più tranquilla di come viene dipinta; certo che ci sono delle esplosioni, dei bombardamenti territoriali, ma qui in città si respira un’aria, certo non proprio tranquilla, io ho sentito come una sospensione, come se le persone cercassero di vivere il presente, il momento. Si percepisce una leggera ansia, condivisibile. La cosa interessante è che non c’è il panico che viene spesso raccontato dai giornali.

 

Persone in fuga verso la Polonia

Certo è molto difficile entrare e soprattutto uscire dalla città, i controlli sono molto severi, check point diffusi. Si arriva in auto, in treno. La città di Leopoli è al 90% patrimonio dell’Unesco e quindi probabilmente gli stessi abitanti sono sicuri che non verrà bombardata. Ci sono sacchi di sabbia vicino alle università, ai palazzi del governo, ai musei.

L’università è piena di profughi che arrivano da altre città, piena di cibo e materiale sanitario. Comunque, ripeto, per quanto possa sembrare incredibile, c’è chi suona il violino per strada, o la chitarra in piazza, non c’è aria da apocalisse. Certo ogni tanto ci sono le sirene e anche ieri sono andato per un’ora nel rifugio. Si percepisce una guerra possibile, ma non diretta.

Quello che mi preoccupa è lo scontro e la polarizzazione che lo accompagna, tra russi e ucraini. Mi immagino anni e anni di conflitto sotterraneo tra russi che vivono in Ucraina e ucraini che vivono in Russia.

Bisognerebbe sostenere coloro che hanno rinunciato a fare il servizio militare, da una parte e dall’altra. Nel centro profughi di Przemlys c’erano degli uomini sui 60 anni che davano volantini raccontando che anche in Ucraina c’è un gruppo di ucraini per la pace. Se tutti i militari si fossero rifiutati di combattere, i due leader si sarebbero presi forse a schiaffi; certo non sarebbe successo quello che è successo a Kharkiv, alla periferia di Kiev o a Mariupol. Anche io ho visto uomini in città, tranquillamente. Questa immagine apocalittica in cui TUTTI gli uomini tra i 18 e i 60 anni sarebbero impiegati in guerra non è vera.

Il centro profughi a Przemlys, in Polonia

L’esperienza forte che ho vissuto, per una settimana, è stata invece a Przemlys, una città piccola, tipo Parma, in Polonia, a 70 km da Leopoli. Lì si trova un campo profughi, autogestito, all’interno di un grande centro commerciale. La situazione è drammatica, 4500 persone, con sei bagni! Lì si, si vedono in qualche modo, gli effetti devastanti della guerra. Persone di tutte le età, famiglie con le loro poche cose, che di notte ricevono notizie da amici e parenti e si sentono i pianti; anziani con il loro cane, ragazzini con l’uccellino nella gabbia, uno addirittura con una vaschetta con l’acqua per la sua tartaruga. Un’umanità sradicata.

Mi ha fatto effetto che nel campo lavorassero tante diverse piccole comunità o ong di base. Ho visto volontari irlandesi, portoghesi, spagnoli, italiani… Non ho visto le grandi organizzazioni, forse invece di mandare armi l’Italia potrebbe mandare più pullman, più comunità legate ai Comuni, più persone che possono accogliere i profughi.

Foto di Manfredo Pavoni Gay