Quanto ci costano le armi che mandiamo in Ucraina?

E i profughi che fuggono dal conflitto?

E’ una domanda che dobbiamo porci, soprattutto perché in questo momento è in discussione la conversione dei due D.L. che regolano la materia.

Ed è inutile evitare la domanda con considerazioni etiche come: “se c’è in ballo un principio, chissene frega dei soldi”, perché la domanda si ripropone, insistente, almeno per una questione di trasparenza.

Con una precisazione: qui non si parla dei costi indiretti – che pure sono notevolissimi – come quelli prodotti dall’aumento del prezzo del gas o del carburante, ma proprio di questi due elementi banali, concreti, immediatamente tangibili: armi e profughi.

Una volta chiari i dati, possiamo fare tutte le discussioni etiche del caso; prima, no.

Il problema è che, ad analizzare i testi normativi, saltano all’occhio degli elementi inquietanti.

Il primo è di ordine temporale ed è talmente macroscopico da fare venire i brividi: l’Ucraina è stata invasa il 24 febbraio, e il 25 febbraio l’ Italia ha emanato il primo provvedimento di emergenza aumentando la spesa militare destinata alla Nato.

Si tratta del D.L. n. 14 del 25/2/22Disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina” in cui si prevede che l’Italia  sosterrà una spesa aggiuntiva  di 86.129.645 euro in sei mesi per la partecipazione all’iniziativa Nato “Very High Readiness Joint Task Force”, cioè ad un’unità combattente capace di dislocarsi in qualsiasi parte del mondo in 2-3 giorni.

A questo si aggiungono 67.451.608 euro in un anno per la partecipazione alle operazioni di monitoraggio e la presenza di truppe in Lettonia, e 12.000.000 per l’equipaggiamento con dispositivi “non letali”.

La spesa è per lo più sostenuta con somme che erano destinate alla Cooperazione internazionale allo sviluppo.

Il testo si trova, ovviamente, in Gazzetta Ufficiale ed è di pronta consultazione per tutti.

A questo punto, delle due l’una: o abbiamo raggiunto un’efficienza amministrativa da far impallidire la Prussia bismarkiana, o la preparazione al conflitto si è preparata mentre l’opinione pubblica ne era completamente all’oscuro.

Infatti, oltre a notare che un’approvazione così rapida non la si è avuta neanche per la tragedia di Amatrice, che ci riguardava direttamente, si tratta di un decreto legge estremamente tecnico  e con un impegno di spesa particolareggiato: cose che impongono attenzione, riflessione, e scelte di policy importanti.

Sarebbe bene quindi che il Governo spiegasse che cosa è successo, specialmente per fugare il dubbio che le scelte nazionali siano mosse da decisioni diplomatiche segrete sottratte al controllo del Parlamento.

Il secondo decreto legge – quello su cui molto si è discusso pubblicamente- solleva ancora più problemi del primo.

Si tratta del D.L. n. 16 del 28/2/22Ulteriori misure urgenti per la crisi ucraina”, e riguarda tre punti: 1) autorizza l’Italia ad inviare materiale bellico in Ucraina, 2) prevede misure di emergenza per la crisi del gas, 3) amplia gli stanziamenti per l’accoglienza dei rifugiati.

Lasciata fuori la pur rilevantissima questione del gas, vediamo cosa dicono le altre due previsioni.

Facciamo una premessa.

Secondo l’articolo 81 Cost. ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.

Il D.L. 14/22, come abbiamo visto, lo fa sottraendo risorse alla Cooperazione allo Sviluppo; e anche il D.L. 16/22 lo fa in alcuni punti, per esempio prevedendo all’art. 3 che la spesa per accogliere i rifugiati ucraini sia di 54.162.000 per il 2022, da reperire tramite  mediante “corrispondente riduzione del  Fondo  per  interventi  strutturali  di politica  economica”.

Qui c’è una prima riflessione: c’è una spesa per l’accoglienza ingentissima – raddoppiata rispetto a quella precedente – sulla cui sostanza (riguarda solo i profughi ucraini, e degli altri chissenefrega) – e sulla cui copertura si può essere d’accordo o non d’accordo, ma almeno la previsione è chiara.

Non è chiara invece quella sulle armi, cioè il primissimo articolo del decreto, ed il suo vero cuore: viene detto solo che  viene autorizzata “la cessione di materiale, mezzi ed equipaggiamenti militari alle autorità governative dell’Ucraina”.

Ma quanto?

Per quale spesa?

E con quale copertura?

Da un punto di vista tecnico ha senso che il materiale bellico sia identificato con successivi decreti interministeriali, data la specificità della materia.

Quello che assolutamente non è normale, invece, è che non siano previste né l’ammontare della spesa  (che significa anche, indirettamente, la quantità di armi) né le fonti di copertura.

Si tratta di un dato importante, e che va sottolineato.

Che cosa è successo?

Vediamo quali possono essere le giustificazioni.

Una potrebbe essere di tipo etico, anche se inaspettato: i produttori di armi, sconvolti dal dramma dell’aggressione di un paese a migliaia di chilometri di distanza,  stanno facendo beneficenza, e il nostro governo si sta facendo intermediario del dono.

Non siete convinti?

Allora proviamo con una di tipo pratico, cioè l’Italia sta facendo il gioco delle tre carte: svuotiamo i magazzini di armi non più utili, quindi a costo zero, con l’idea di rimpiazzarle con altre più efficienti in seguito, da inserire in un apposito capitolo di spesa successivo.

Questo conviene agli ucraini? Probabilmente no; mentre per noi la soluzione è neutra.

Oppure cediamo armi buone ma sempre -per forza-  con l’idea di rimpiazzarle.

Questo conviene agli ucraini; ma non conviene a noi.

Insomma: per noi italiani una soluzione è neutra e l’altra è svantaggiosa, e chi ci guadagna sempre e comunque sono solo i produttori di armi da cui compreremo quelle nuove.

La cessione di armi già in nostro possesso sembrerebbe l’ ipotesi più probabile, dato che il decreto prevede per inciso che le modalità della cessione saranno fornite in successivi decreti interministeriali  “anche ai fini dello scarico contabile” del materiale consegnato.

Però anche questa disposizione è ambigua: le modalità devono dunque essere ancora decise, e lo “scarico contabile” del materiale esistente (ANCHE ai fini) sembrerebbe una fra le possibilità.

Se comunque la cessione riguardasse armi in magazzino e fosse a titolo gratuito, l’art. 81 Cost. formalmente sarebbe rispettato perché non c’è nessun impegno di spesa nuovo; tuttavia, è evidente che si tratta di un imbroglio reso possibile dall’emotività imperante.

Infatti, se il governo fosse in buona fede indicherebbe il valore della merce ceduta (così capiremmo anche banalmente di che si tratta)  e, in prospettiva, le fonti di copertura della spesa per il rimpiazzo che dovrà essere fatto a stretto giro.

Infatti, quanto a lungo un paese può rimanere senz’armi, specialmente in una situazione di pre-guerra?

E’ ovvio che il provvedimento vago serve a spostare l’attenzione del Parlamento dalla spesa e ad aggirare l’art. 81 Cost.: queste armi non si pagano,  ma necessariamente dovremo pagarne altre, a meno di non voler rimanere senza.

Alternative?

Può darsi che la formidabile squadra che aveva scritto in 24 ore il decreto precedente, stanca del lavoro, abbia dimenticato i due particolari della spesa e della copertura; oppure che il governo – non sapendo che pesci prendere – abbia messo la questione in stand by.

Però attenzione: in questo caso ci sono due problemi.

Uno è giuridico –  bisogna interrogarsi sulla legittimità costituzionale della previsione dell’art. 1 D.L. 16/22. – e uno è politico – se il governo non è stato capace di gestire a livello tecnico la questione armi in 4 giorni, come è possibile che sia stato capace di gestire la questione Nato in sole 24 ore?

Si può ragionevolmente credere che, preparando un intervento militare, non ci fossero impegni di spesa ulteriori?

Cosa è successo nel frattempo?

Questo buco nero informativo fa paura.

Ultimo scenario, è che il governo abbia semplicemente scelto di omettere degli elementi  non solo rilevanti, ma costituzionalmente obbligati.

Se c’è dolo – cioè se l’omissione è volontaria –  siamo di fronte ad un fatto gravissimo, di fronte al quale dobbiamo tutti fermarci un momento e riflettere.

Il disegno di legge per la conversione di entrambi i decreti non risponde a nessuno dei dubbi sollevati.

Dove stiamo andando?

E per volontà di chi?

Chi ci rappresenta sta agendo secondo Costituzione, nell’interesse dell’Italia o sta agendo nell’interesse di forze o Stati altri?

Abbiamo abbastanza informazioni per esercitare il controllo sulla legittimità del potere, oppure siamo storditi da una propaganda martellante che ci impedisce di porci le domande più elementari?

In sostanza: stiamo inviando armi in Ucraina per una questione di principio – aiutare uno Stato aggredito contro uno Stato aggressore – , per questioni di fedeltà alla scelta di uno Stato straniero che guida un’alleanza militare di cui facciamo parte, o perché ci sono interessi nazionali sotterranei che riguardano, miseramente, la vendita di armi?

E’ a tutti i cittadini, non ai posteri, l’ardua sentenza.