No, come regola non dovrebbe esistere, ma esiste a causa del nostro passato, del retaggio culturale che ha plasmato pensieri e, attraverso la lingua, li ha definiti, trascritti e codificati. Il pensiero è proporzionale alle parole che si possiedono per definire concetti: più conosci parole che definiscono, più riesci a definire la realtà, analizzata e vederla in modo arricchente e non superficiale.

In una lingua come l’Italiano, che è vittima del “maschile neutro universale”, concepire il femminile è stato ed è tuttora difficile. Non perché sia complicata, ma perché il linguaggio ha plasmato un certa “norma” che prevede che sia “naturale” rivolgersi a tutti e a tutte al plurale maschile. Eppure, dove è stato pensato, il femminile è sempre stato concepito spesso, a parità di termine, con un significato dispregiativo rispetto a quello maschile (esempio – cortigiano e cortigiana).

É una “norma”, ma chi l’ha creata? Chi l’ha decisa? Nessuno individualmente, ma una società che non ha mai pensato le donne come individue attive e quindi che senza nemmeno la possibilità di stare al centro di un discorso che sia di azione.

Nonostante le paranoie sulla fantasmagorica e inesistente “teoria gender”, sull’omosessualizzazione dei bambini e altre invenzioni, il tema del linguaggio di genere è una forma di lotta per cambiare il nostro modo di pensare, per modificare i modelli di genere che abbiamo ereditato e per decostruire il maschilismo.

Contrariamente ad altri Paesi occidentali, l’Italia è il più arretrato in fatto di interventi legislativi tesi a favorire un uso non discriminante della lingua. L’unica pubblicazione a riguardo è “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” di Alma Sabatini, pubblicate nel 1986 per la “Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra Uomo e Donna” istituita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e successivamente confluite nel volume “Il sessismo nella lingua italiana” di Franco Sabatini del 1987.  Le Raccomandazioni furono ignorate sia dalle istituzioni che dalla stampa.

Alma Sabbatini, femminista e linguista, già in quegli anni rifiutò:

  • il suffisso –essa (come avvocatessa o studentessa) per denominare il ruolo di una donna;
  • il determinatore ‘donna’ usato per esempio per indicare ‘l’ingegnere donna’;
  • la proposta dell’accordo di aggettivi e verbi secondo il genere numericamente maggioritario, ovvero “Teresa, Cinzia, Cecilia, Mauro e Francesca sono arrivate” al posto di “sono arrivati”.

Per questa sua proposta venne additata di fare un uso ‘agrammaticale’ della lingua.

Solo vent’anni dopo arrivò la Direttiva del 23 maggio 2007 “Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche” del Dipartimento della Pubblica Amministrazione e del Dipartimento Pari Opportunità. Nel 2012 il Comune di Firenze promuove le Linee guida per l’uso del «genere» nel linguaggio amministrativo a cura di Cecilia Robustelli. Nel 2017 sono state compilate le “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del Ministero dell’Istruzione”, ma non sono state messe in pratica.

Nelle istituzioni varrebbe il lodo Prodi-Finocchiaro che impone il linguaggio inclusivo nelle comunicazioni istituzionali e sarebbe corretto che ci fosse una commissione che corregga tutte le comunicazioni ufficiali che non utilizzano linguaggio di genere.

Fino ad oggi, nel nostro paese si declinano al femminile solo i termini impiegata, disoccupata, maestra: una vergogna se pensiamo all’esistenza di filosofe, sociologhe, ingegnere, architette, infermiere, sindache, prefette, ministre e avvocate. D’altronde, finché le donne sono state tenute nell’analfabetismo non esisteva nemmeno maestra, eppure senza le maestre come farebbero ad andare avanti le scuole? Senza le infermiere come potrebbero esserci gli ospedali?

Lidia Menapace, partigiana, pacifista, intellettuale e tra le madri del femminismo italiano, era ritornata nel 2016 a parlare dell’italiano come una lingua maschilista, in quanto fondata sulla dogmatica e immodificabile regola grammaticale che “in italiano nelle concordanze prevale il maschile, come genere più nobile”. Ma chi l’ha deciso se non una società in cui era pensabile che solo gli Uomini potessero ambire a “ruoli nobili”? Che poi, di quali ruoli si tratterebbe?  Menapace, infatti, andò oltre mettendola sul piano della realtà e del diritto. Secondo lei, solo per convenzioni culturali, l’Italiano, non volendo pensare a declinazioni femminili, stava rinunciando a rimanere una lingua viva:

Se una parola che servirebbe non c’è, la si inventa, nelle lingue vive. Solo le lingue morte  non possono inventare parole e l’italiano benché malaticcio non è ancora una lingua morta. Chi vuole che non muoia si sforzi di usare sindaca, ministra, questora, prefetta, direttora ecc. ecc. Farà pure una operazione socialmente utile, mostrando come il potere sia mal distribuito tra i generi e quanta parte di esso sia ancora  sottratto alle donne. Diffondendo l’uso di neologismi al femminile si correggerà il poco invidiabile primato che fa dell’italiano la più maschilista delle lingue neolatine in paese cattolico, più dello spagnolo, francese, portoghese“.

Lidia Menapace scriveva anche che l’Italiano aveva una grammatica incostituzionale in quanto viola gli articoli 1 e 3 della nostra Costituzione: la democrazia non ammette prevalenza tra cittadini e cittadine, come proposto dalle Madri Costituenti. Un principio di uguaglianza di genere che sancisce giustizia. Nulla di stravolgente, ma che a quanto pare può dare ancora fastidio nel 2021. Sta di fatto che la lingua inevitabilmente cambia e il  linguaggio non-discriminatorio traduca le normative in materia linguistica perché nelle lingue ciò che è importante è l’uso.

E’ di oggi la notizia che la Commissione Europea ha ritirato un documento interno sul linguaggio inclusivo che negli ultimi giorni era stato al centro di una polemica innescata da alcuni giornali italiani di destra  he hanno paventato pericolo di «cancellazione del Natale», di presunti «divieti», bavagli, censure, pericolo di “cancel culture” ed eccessi di “politicamente corretto”. In realtà non solo il documento non era una direttiva, ma non era nemmeno vincolante per gli stati europei. Per quanto non fosse scritto benissimo e in modo chiaro, molti altri lo avevano interpretato per attaccarne presupposti e presunti obiettivi. Queste le fantasie di chi oggi si oppone ad un linguaggio inclusivo e che, per una “battaglia ideologica”, continua a perseverare la sua lotta contro i diritti, la giustizia e l’uguaglianza. Forse si crede che non ci sia la necessità di una nuova educazione o che addirittura, il linguaggio non sia un problema.

Così la commissaria all’Uguaglianza, Helena Dalli, ha fatto sapere che il documento «non è maturo e non raggiunge gli standard qualitativi della Commissione europea», e perciò ha bisogno di «maggiore lavoro». Il documento della Commissione si intitolava «Linee guida della Commissione europea per la comunicazione inclusiva» ed era composto da 32 pagine. Nell’introduzione diceva che tutte le persone hanno diritto a essere «trattate allo stesso modo», ad essere «incluse e rappresentate» indipendentemente da genere, origine etnica, religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale. Si sottolineava come le parole e le immagini che si usano quotidianamente nella comunicazione trasmettono «messaggi su chi siamo e su chi non siamo», rivelano i nostri pregiudizi e «possono perpetuare pregiudizi negativi e stereotipi»; che l’uso di un linguaggio non inclusivo «può legittimare o persino incoraggiare l’emarginazione e la discriminazione». Queste, ad oggi, le difficoltà che impediscono una cosa semplice: il linguaggio di genere come nuova norma per guardarci negli occhi senza discriminazioni e senza alcuna disparità. Quanto è ancora difficile parlare di giustizia di genere?