Una cara amica mi segnala il libro di Marco Manzoni “Salvare il futuro. Dall’Homo hybris all’Homo pathos”. Lo leggo tutto d’un fiato, è scritto molto bene, denso e ricchissimo di spunti e riferimenti. Avuto il suo contatto, gli chiedo un’intervista. Ci incontriamo ai giardini di Porta Venezia a Milano e mi racconta….

Com’è iniziato il tuo percorso? 

All’inizio ho lavorato per 12 anni al Teatro Franco Parenti occupandomi delle iniziative culturali, poi nel 1988 ho messo in piedi un’associazione, “Studio OIKOS, progetti culturali e scientifici” e ho ideato diversi convegni e seminari transdisciplinari attorno alle linee di tendenza della società contemporanea. Il primo convegno nell’88 fu su “Velocità, tempo sociale e tempo umano” e vi parteciparono 20 relatori di diverse discipline, dalla filosofia alla psicologia, all’economia, all’informatica; già allora leggemmo criticamente la tendenza della società contemporanea a un’accelerazione esponenziale. Il filo rosso che ha spesso unito le iniziative alle quali ho dato vita era tenere insieme la dimensione del macrocosmo con quella della persona, analizzando come queste dinamiche impattavano anche sull’individuo, come i cambiamenti sociali, materiali, economici influivano anche sull’interiorità della persona.

Questo lavoro, andato avanti negli anni, è stato affiancato da quello di responsabile in Italia della promozione dei documentari della TV svizzera. Organizzavamo serate al centro San Fedele e all’Anteo. Erano interviste a personalità sia laiche che religiose eterodosse, fuori dal coro. Prendendo spunto da questa esperienza, negli ultimi dieci anni ho realizzato interviste andando a cercare figure significative del nostro tempo non appiattite sul pensiero dominante e dissonanti dal sistema mediatico. Cercavo le “lucciole” pasoliniane. Le prime due interviste furono con Rossana Rossanda (voce forte del marxismo critico) e Raimon Panikkar (un teologo non istituzionalizzato, anticonvenzionale). Da allora ho realizzato venti video-interviste.

Le mie riflessioni sono così proseguite durante il primo lockdown, quando eravamo tutti isolati in casa, in un momento difficilissimo ma anche magico per certi aspetti – tra terrore e stupore – nel quale la macchina del sistema produttivo aveva rallentato. In quel momento ho avuto tempo per cercare di riannodare le riflessioni accumulate grazie a questi numerosi incontri con maestri e maestre. Questo lavoro l’ho fatto in quel momento “per me”. Non immaginavo ne uscisse un libro, come invece poi è stato.

Si ha la sensazione che tu ti sia mosso nella “tua” Milano, in questo formidabile sottobosco, ma fuori c’era ben altro: la Milano da bere, il berlusconismo, la Lega, l’Expo. Correvate un po’ su binari paralleli…

Il rapporto con Milano non è stato sempre facile, anzi, è una sorta di amore-odio. Mi sento profondamente milanese, non “il bauscia” snob, ma un figlio della tradizione di questa città aperta alle diversità. Milano ha un’importante tradizione etica sia sul versante spirituale che su quello laico: da Manzoni a Beccaria, a Stendhal, ma anche sul lato religioso abbiamo avuto figure significative. Una su tutti, il Cardinale Martini. Ho imparato molto, per esempio, da quella straordinaria e profetica iniziativa degli anni ’80 messa in piedi da Martini: la Cattedra dei non credenti, con i quali lui dialogava. E questo è diventato poi il mio terreno elettivo: mi ritengo un laico, ma sono aperto a incontrare le diverse dimensioni spirituali, anche non occidentali. Ho sempre puntato col mio lavoro a costruire ponti tra i cosiddetti credenti e i cosiddetti non credenti: per esempio, sulla problematica dell’ingiustizia sociale (che non è solo economica, ma anche culturale) che cresce a dismisura e non è mai stata così profonda. Bene, questa problematica, come quella ecologica, riguarda l’umanità nel suo insieme.

Mi sono mosso andando a captare segnali, persone, pensieri fuori dai salotti, senza “padrini” o etichette. Quindi con molte difficoltà, ma anche con grande libertà. Cercavo comunque degli spiragli, delle convergenze, interloquendo anche con parti del sistema che mantenevano una visione critica. Penso per esempio a Piero Bassetti, fondatore di Globus et locus.

Il mio lavoro è stato artigianale; ogni progetto era fatto su misura e curato nei minimi dettagli. Quando ancora si appendevano le locandine o si distribuivano i volantini, non mi tiravo certo indietro. Questo mi aiutava a tenere i piedi per terra e a mantenere un atteggiamento umile a contatto con la realtà quotidiana, che considero una cosa importante.

Credi che sarebbe possibile proporre oggi progetti simili a quelli che realizzasti trent’anni fa?

A suo tempo facevamo convegni e seminari anche con 500 persone che stavano per due giorni ad ascoltare, per sette ore al giorno; oggi mi sembra difficile proporre iniziative del genere. Qualcosa è cambiato. Internet, il sistema mediatico hanno stravolto un po’ tutto, ci si sofferma meno, anche leggere i libri è controcorrente. Bisogna aggiungere che la generazione che aveva sfiorato la Seconda Guerra Mondiale, oggi tra gli 80 e i 90 anni, non c’è quasi più e molti grandi pensatori ci hanno lasciato. Bisognerà trovare nuove forme. Come dico nei primi due capitoli del libro, due degli eccessi che sono sempre più visibili e presenti sono costituiti da tempi troppo veloci e quantità enormi di tutto, dai consumi alle informazioni. La qualità rischia di essere ulteriormente emarginata.

Un autore che nomini spesso è Peccei. A ripensarci provi più rabbia o sconforto?

Aurelio Peccei è stato il fondatore negli anni Sessanta del Club di Roma. Fu una grande personalità, un precursore del moderno ambientalismo e commissionò il profetico rapporto “I limiti dello sviluppo” al MIT di Boston, pubblicato nel 1972, che evidenziava già nel dettaglio la crisi ecologica e climatica che stiamo vivendo. Cinquant’anni fa era già scientificamente tutto chiaro, ma rimase inascoltato e fu una delle tante occasioni perse del pensiero contemporaneo planetario. Provo rabbia e sconforto, certo, ma anche orgoglio per quest’uomo che è stato un profeta laico, il cui pensiero è ancora attuale e va fatto conoscere alle nuove generazioni. C’è un suo libro straordinario “Campanello d’allarme per il XXI secolo” un dialogo tra lui e un monaco buddista sui destini del mondo e dell’uomo, che andrebbe ripubblicato.

A suo tempo ti ritrovasti nel cosiddetto movimento “No global”, da Seattle a Genova?

Non ebbi contatti diretti, ma nell’essenza mi sentivo profondamente vicino alle loro istanze. Non andai alle manifestazioni, ma idealmente ero con loro. Mi occupavo dei medesimi temi, ma li svolgevo in un’altra forma. Ricordo che il secondo convegno che organizzai nel 1988 era proprio sulla questione ecologica. Nel marzo del 2019 sono andato a vedere in piazza i giovani di Fridays for Future e li ho trovati straordinari, commoventi. Questo mio libro è un contributo in quella direzione: cercare di comprendere più a fondo la crisi attuale, che è una crisi globale e non solo economica o sanitaria. In questo senso, il libro è rivolto soprattutto ai giovani.

Nel libro e negli incontri che hai organizzato in passato metti spesso in relazione autori e testi che provengono da campi in apparenza lontani

Si, è questa mia tendenza a creare ponti, a mettere in relazione, a valorizzare le differenze e le diversità che sono la ricchezza del mondo, sia sul versante biologico sia su quello intellettuale e culturale. Nel libro richiamo il nazismo come emblema di qualsiasi totalitarismo che vuole azzerare le differenze. L’altro corno del problema è che queste differenze, queste diversità, si devono parlare, non possono restare né mute, né in contrapposizione. In questo libro esalto la relazione. Noi siamo nati per stare in relazione con gli altri, con l’altro, in particolare con i più deboli, che siano umani o non umani.

Mi sono avvicinato, rispettandole, alle diversità, non per fare un minestrone dove tutto è uguale, ma valorizzandole. Noi abbiamo il problema delle specializzazioni, che sono formidabili, ma che rischiano di non comunicare tra di loro. Infine, abbiamo delle diversità eccezionali che vanno riconosciute e preservate: penso per esempio alle popolazioni originarie dell’Amazzonia, che quel genocida etnico di Bolsonaro vorrebbe eliminare. Sono gli ultimi rappresentanti di una sapienza etnica e antropologica unica al mondo. Così come i cinesi stanno realizzando il genocidio della tradizione del buddismo tibetano, che è un patrimonio spirituale del mondo.

Arrivando alle conclusioni, quali cammini proponi o immagini?

Il mio è un modesto contributo. La questione è così grande che ci vorrà il contributo di tante teste, sensibilità, donne, uomini e non solo occidentali. Penso sia necessaria una premessa: prima di iniziare a ipotizzare una pars construens, dobbiamo rimettere in discussione una parola simbolo degli ultimi secoli dei grandi apparati dominanti (penso al capitalismo, ma anche al socialismo reale), e anche della tecnologia: la parola PROGRESSO. Come cerco di dire nel libro, progresso non può più essere esclusivamente crescita quantitativa di prodotti, di beni di consumo, del PIL. Dobbiamo orientarci sulla dimensione qualitativa e sulla crescita dei beni immateriali – culturali, etici, affettivi. ecologici. Deve crescere la consapevolezza interiore di ognuno di noi, non solo la dimensione pratica e tecnologica, altrimenti diventeremo dei puri funzionari di un grande apparato impersonale. Dobbiamo recuperare il gap che si è creato tra il progresso tecnologico-materiale e quello relativo alla dimensione interiore.

Nel libro ho cercato di riflettere sulle principali forme di avidità e prepotenza attuali e sui rispettivi rimedi: lenti, graduali, ma necessari per riequilibrare situazioni al momento fortemente sbilanciate.

Per concludere, tengo a sottolineare una componente fondamentale per la trasformazione verso l’Homo pathos – l’uomo che sa tenere in relazione l’equilibrio del pianeta con quello dentro a se stesso – tema che riprendo alla fine del libro: la componente femminile, che non vuol dire solo quella biologica. Il femminile deve prendere spazio rispetto al maschile tradizionale. Senza questa inversione nei rapporti di forza, non supereremo questa crisi.  E in modo complementare deve crescere un nuovo maschile: non arrogante, non prepotente, non avido, ma all’insegna della cura e della relazione con tutto le forme viventi umane e non, a partire dai più deboli e svantaggiati.

Lo saluto e lo ringrazio. Inutile dire che è un libro da leggere e far leggere…