Nel settembre 2018 avevo intervistato Riccardo Gatti, allora capomissione della Open Arms, parlando tra l’altro di criminalizzazione della solidarietà e manipolazione dell’informazione, temi purtroppo ancora molto attuali e ripresi in questa intervista. Conclusa l’esperienza con Open Arms, Riccardo continua a collaborare con le Ong in mare. Nel libro “Conversazioni in alto mare”, in uscita il 7 ottobre, dialoga con l’antropologo Marco Aime su lavoro nel sociale, salvataggi, narrazione sulla migrazione, ipocrisia istituzionale e molto altro, facendoci vivere in diretta come si svolge un’operazione di soccorso.

Da dove nasce l’idea di questo libro?

L’idea è partita in modo molto naturale, dopo un incontro a cui ero stato invitato nell’Ateneo degli Imperfetti a Mestre; da lì Marco Aime e altri hanno iniziato a pensare di mettere nero su bianco non solo la mia testimonianza, ma anche di cercare di ragionare su quello che succede nel Mediterraneo centrale. Quando rifletti nascono quesiti, questioni da trattare, riflessioni e anche una visione più aperta su noi stessi. Da lì ho avuto la fortuna di poter dialogare con Marco; poi il grande lavoro dei ragazzi e delle ragazze di elèuthera ha portato alla nascita di questo libro, con i vari spunti di riflessione e di informazione forniti da Duccio Facchini nella postfazione e con gli splendidi disegni di Gianluca Costantini.

Sei impegnato da anni nei soccorsi in mare…

Sì, è da anni che mi occupo per fortuna e per sfortuna dei soccorsi in mare. Dico per fortuna perché questo mi ha dato la possibilità di mettere in discussione me stesso e il mio vivere, di portare questa testimonianza e di difendere i diritti di tutti e di tutte. Per sfortuna perché per me e per tutti noi essere lì significa che le cose non vanno bene. Non dovremmo esserci. Non dovrebbe esistere questa necessità, ma finché c’è dovremo starci.

Cosa hanno significato per te il passaggio dalla definizione di “angeli del mare” a quella di “trafficanti di esseri umani” e la guerra sempre più accanita contro la presenza delle Ong nel Mediterraneo?

Questo passaggio rappresenta l’errore di lettura della realtà. Noi che facciamo questo lavoro, che diamo questo aiuto mutuo a chi ne ha bisogno non siamo degli angeli, siamo solo persone che aiutano altre persone. Non c’è molta differenza, a parte quella materiale, tra l’azione che svolgiamo noi e quella di chi guida un’ambulanza, di chi aiuta qualcun altro in qualsiasi contesto, di chi aiuta le persone che ci circondano, giorno dopo giorno.

Il passaggio da questa definizione a quella di trafficanti di esseri umani è stato proprio cercare di creare, o averlo creata, perché in un certo senso ce l’hanno fatta, una narrazione della realtà totalmente strumentale a interessi di potere, politici o quant’altro. E in questa narrazione i testimoni scomodi di ciò che succede nel Mediterraneo centrale, non solo delle morti, ma anche di chi ne è responsabile, devono essere allontanati. E’ facile creare un’idea criminogena di queste persone, che poi siamo noi, chiamandoci trafficanti di esseri umani, taxi del mare eccetera. La stessa cosa e ancora peggio è accaduta con le persone migranti: potersi muovere liberamente è un diritto, ma quelli che non lo fanno secondo le regole dettate da chi ha il potere in mano vengono rappresentati come dei criminali. La parola clandestini è associata alla criminalità, alla moralità, quindi sono cattive persone. E’ tutto strumentale; come vittima di queste rappresentazioni e testimone di prima mano, quello che mi spaventa è constatare come viene usato il discorso pubblico per modificare la visione dei cittadini. Un modo per controllarli diciamo diabolico e molto efficace.

Che cosa ti dà la forza per continuare a praticare quello che chiami “il mestiere del salvare”?

Diciamo che la forza viene data dall’azione in sé. Ogni volta che aiuti delle persone, che soccorri delle persone, pur sapendo che la situazione che troveranno a terra non sarà per niente rose e fiori, la soddisfazione che vedi nei loro sorrisi o nel sentirsi al sicuro ti dà una forza importante per andare avanti. E poi anche l’appoggio di chi ti circonda, conoscenti o no, dà una spinta veramente forte per poter continuare. Non credo che sia una cosa così speciale: semplicemente faccio quello che so fare, cercando di mettere in atto il mondo in cui vorrei vivere. Un mondo dove se c’è la necessità di soccorrere ci sia qualcuno che lo faccia.

Che legami si creano tra chi passa magari mesi su una nave ad aiutare persone in situazioni estreme, in cui entrano in gioco la vita e la morte? E cosa succede con le persone salvate?

I legami, come i normali legami umani, variano. Possono essere forti e meno forti. Ciò che ci accumuna è un intendimento chiaro riguardo a ciò che si è vissuto e che spesso è difficile condividere con chi non ha mai fatto queste operazioni. Credo che succeda un po’ in tutti i campi di azioni diciamo estreme, di soccorso, eccetera. E’ un punto che lega anche persone che non hanno affinità tra di loro, che vivono in mondi diversi.

I rapporti con le persone salvate si limitano ai momenti a bordo, che purtroppo diventano lunghi. Dico purtroppo perché come sappiamo dovrebbero essere sbarcate il prima possibile e invece per le conseguenze delle decisioni politiche rimangono a bordo più tempo. La parte positiva, se così possiamo chiamarla, è che si instaura un rapporto più umano con loro; con alcuni ci si conosce. Questo non compensa il fatto che dovrebbero essere sbarcati subito perché hanno bisogno di cure. Il rapporto con loro a bordo dipende anche da quante persone si soccorrono. Se il numero è piccolo si riesce ad avere più spazio di relazione e di interazione, se sono molte diventa più complicato. E’ un rapporto di vicinanza umana, cercando di mantenere la distanza necessaria per non invadere il loro spazio di intimità personale, perché bisogna presumere che il loro vissuto recente e meno recente è potenzialmente molto traumatico. Per questo è importante mantenere sempre un rispetto e una cura a livello umano.

Che cosa possiamo fare come giornalisti indipendenti e attivisti per aiutare a far conoscere questo libro tanto necessario?

Il libro è importantissimo perché mette nero su bianco delle cose che abbiamo affrontato in diversi momenti sia privati che pubblici. E’ un punto di partenza per continuare a mantenere alto il discorso su ciò che sta succedendo, ma anche una riflessione su quello che siamo, quello che facciamo, in che mondo viviamo. L’importante è leggerlo, comprarlo se possibile, perché i proventi, a parte quelli minimi per continuare a stamparlo, andranno a progetti di appoggio alle persone migranti che via via verranno individuati e chissà poi magari anche a favore di chi difende i loro diritti. E poi regalarlo, farlo girare, che si muova. Non è una Bibbia, ma come è successo a me nel parlare con Marco, ragionare può dare la possibilità che i punti che tocchiamo suscitino riflessioni. E con le riflessioni si aumenta sempre il senso critico rispetto a quello che facciamo come esseri umani in generale. L’analisi critica della realtà è utile per andare verso una libertà non solo personale, ma anche comunitaria.

Scheda del libro “Conversazioni in alto mare”

Sullo sfondo dell’ipocrisia istituzionale che contrassegna un’Europa formalmente paladina dei diritti umani ma di fatto sempre più arroccata in sé stessa, Riccardo Gatti, da anni impegnato nei soccorsi in mare, ci racconta, in dialogo con Marco Aime, il mestiere del salvare. Così, in queste conversazioni condotte sul “campo”, ovvero in navigazione nel Mediterraneo centrale, un “capitano anarchico” e un antropologo che si occupa di migrazioni provano ad analizzare la complessità dei salvataggi in mare e le loro implicazioni, umane ma non solo, così come il clima culturale e la narrazione che intorno a esse si è venuta a creare. Un racconto in diretta che ci aiuta a capire come mai nel giro di poco tempo quelli che erano chiamati “angeli del mare” sono all’improvviso diventati “trafficanti di esseri umani”. Contro le retoriche prevalenti, sguaiate da un lato e semplicistiche dall’altro, e soprattutto contro l’indifferenza dei più, queste riflessioni ci fanno entrare nel vivo di uno dei fenomeni più significativi dell’ultimo ventennio. Un fenomeno che è lontano dall’essere concluso e che sta mettendo in gioco i nostri valori più intimi.

RICCARDO GATTI (Lecco, 1978) si trasferisce poco più che ventenne a Palma di Maiorca, dove inizia a lavorare nel sociale come operatore in contesti di emarginazione socio-lavorativa e come educatore in centri per minori. Sull’isola impara anche l’arte della navigazione, abilità che gli consente di pagarsi gli studi universitari in Psicologia. Grazie all’esperienza e alle capacità così acquisite, nel 2015 inizia a lavorare con Médecins sans Frontières nel mar Egeo come pilota di imbarcazioni di soccorso. Nel maggio 2016 comincia a operare nel Mediterraneo centrale sulle navi della ONG spagnola Open Arms, come comandante prima e come capo missione poi, ricoprendo contemporaneamente il ruolo di presidente di Open Arms Italia. Nel settembre 2021, terminata l’esperienza con Open Arms Italia, continua a collaborare, sempre nel Mediterraneo centrale, con varie ONG impegnate in operazioni di soccorso.

MARCO AIME (Torino, 1956) insegna Antropologia culturale all’Università di Genova. Ha condotto ricerche in Africa occidentale (Benin, Mali) e sulle Alpi italiane. Autore di numerosi saggi antropologici, con elèuthera ha inoltre pubblicato La macchia della razza (2017), Etnografia del quotidiano (2018) e con Luca Borzani Guida minima al cattivismo italiano (2020).

Il libro è acquistabile in versione ebook e cartacea dal sito dell’editore www.eleuthera.it, oppure in tutte le librerie. Verrà presentato al Salone del Libro di Torino venerdì 15 ottobre alle ore 18.45 con Riccardo Gatti, Marco Aime e Duccio Facchini.