Si è svolto oggi a Milano, davanti alla prefettura, un presidio contro i CPR. Un piccolo presidio organizzato in 4 giorni, ma con una raccolta di interventi densi e importanti per descrivere l’assurdità di questi luoghi.

Il presidio nasceva dall’ennesimo diniego della prefettura di Milano di permettere ai giornalisti una visita al CPR di via Corelli.

Una protesta nei pressi della prefettura, proprio per denunciare la mancanza di trasparenza, la volontà di creare un cono d’ombra intorno a questi luoghi dove i diritti non esistono, dove si finisce in esperienze kafkiane, dove si entra solo perché senza un pezzo di carta e si finisce, dopo mesi, umiliati, terrorizzati, come degli zombie per la quantità di psicofarmaci distribuiti all’interno.

Sono state soprattutto le parole di Nadia Bovino, volontaria del Naga e della rete “Mai più lager- No ai CPR”, che ha raccontato quello che avviene all’interno. Nadia è una delle persone che accompagnarono il senatore De Falco durante la visita di giugno e che rese possibile la produzione dell’importante report “Delle pene senza delitti”.

Poche persone ma attente, curiose, sempre più convinte che questa città dovrà mobilitarsi con più forza e determinazione affinché questa vergogna, che si trova nella periferia della nostra città, venga chiusa una volta per tutte, a Milano come altrove, in Italia e in Europa.

Al termine del presidio è stata letta con parecchia emozione la testimonianza integrale di un’ex operatrice del CPR di via Corelli che ha deciso di raccontare la propria scioccante esperienza, testimonianza raccolta e pubblicata dalla rete “Mai più lager- No ai CPR” e che riportiamo sotto.

 

Foto di Andrea Mancuso

 

“Ho lavorato al CPR di Milano per due settimane. Ero disoccupata da tantissimi mesi ormai, quindi quando ho ricevuto la proposta di iniziare un nuovo lavoro ne ero entusiasta. Ho cercato la Cooperativa su google e il loro sito sembrava molto interessante. Da nessuna parte c’era scritto che gestivano un CPR, anzi, mi avevano detto soltanto che gestivano una casa di accoglienza e il nome del gestore.

Una volta lì però ho realizzato subito che la situazione era ben diversa, è stato scioccante. I giorni passati lì sono stati molto pesanti psicologicamente, e anche ora ricordo con amarezza e disgusto l’esistenza di un posto simile.

Cos’è il CPR.

Il cpr è una struttura in cui i diritti umani svaniscono,  le persone non hanno alcun tipo di diritto. Perché? Soltanto perché non hanno il permesso di soggiorno. Ho lavorato al CPR di via Corelli per due settimane. Per me è stato molto pesante psicologicamente. Una volta presa coscienza della situazione non sarei voluta tornarci mai più.

Appena entri ti senti in prigione e non vedi l’ora che finiscano le tue ore perché è insopportabile ciò a cui assisti! Di notte avevo gli incubi, mi svegliavo alle 3 del mattino e non riuscivo più a dormire. Alcuni dei ragazzi mi dicevano che la prigione è molto meglio rispetto a quel posto così disumano.

Non dimenticherò mai il mio secondo giorno al CPR. Ero in infermeria per portare “gli ospiti” (li chiamo così perché mi era stato detto che la parola detenuti è vietata) a prendere le loro terapie. Ad un certo punto ho sentito delle urla e tutti che ci dicevano di uscire, di scappare. Sono uscita fuori, non capivo assolutamente nulla. Ad un certo punto mi hanno detto che uno degli ospiti si è tagliato.

Ero molto agitata, il cuore mi batteva fortissimo.

Dopo che la persona era stata ricoverata in infermeria sono andata al corridoio che portava alle celle dei detenuti, era pieno di sangue, c’era sangue dappertutto. Un corridoio lungo 80 metri pieno di sangue, mi veniva da piangere, ero traumatizzata. C’era dappertutto l’odore del sangue, quell’odore che sa di ruggine e di ferro. Una scena terrificante. 

Dopo qualche minuto, dato che ormai non potevo proseguire con le terapie, sono andata a preparare alcuni cambi  di vestiti per dei ragazzi che me li avevano chiesti al mattino. Li ho preparati, il sangue ormai si stava asciugando ma l’odore non spariva, era così penetrante.

Ricordo di essermi avvicinata ad una delle finestre per parlare con qualcuno dei ragazzi, ho messo le mani sulla gabbia della finestra e le mie mani sono rimaste tutte appiccicose  perché pure dalla finestra scendeva il sangue, sono rimasta sconvolta!!!

Ad un certo punto uno dei ragazzi mi ha detto di voler il suo compagno di cella che si era tagliato. Allora lui mi ha detto una frase che non dimenticherò mai: “Vado a farlo pure io”. Io mi son messa a piangere, ad urlare: “No, ti prego non farlo!” Ho appoggiato la mano dalla finestra ingabbiata e così ha fatto anche lui dall’altra parte continuando a tranquillizzarmi dicendomi che non l’avrebbe fatto. 

Quel sangue rimase su quelle finestre per tanti altri giorni e quell’odore di sangue quasi non se ne andò più.

Quel giorno volevo dare le dimissioni, volevo andare via da quel posto. La forza di continuare a stare lì me la dava il pensiero/la speranza che in qualche modo potessi dare il mio contributo, potevo annotare le loro richieste e cercare di soddisfarle…

Quali erano queste richieste?? Erano basilari!! Mi chiedevano il sapone, la carta igienica, di iscriversi nelle liste per chiamare i familiari…  Mi ricordo che il sapone lo dovevo passare dai buchi della finestra ingabbiata, palline di sapone liquido piccolissime, una ad una. Perché se avessi voluto seguire la procedura avrei dovuto far uscire un detenuto per volta con vicino 2 poliziotti per ciascun ragazzo per consegnare 3 palline di sapone liquido… sarebbe stata una procedura poco dignitosa!!! Spesso mettevo il sapone in 2 sacchetti, li introducevo nei 2 reparti e loro se li dividevano.

Anche consegnare il cambio, una cosa semplicissima, diventava complicatissimo. Spesso non trovavo i cambi, le magliette erano poche, alcune erano rotte, le felpe spessissimo senza zip, mutande usate (dall’interno del CPR mi dicevano che potevo consegnare soltanto quelle usate che spesso erano macchiate o rotte). Quelle nuove, anche se c’erano, non potevano essere consegnate (se non una mutanda nuova ai ragazzi appena entrati). Non potevo consegnare più di 4 cambi a 4 persone perché poi finivano. 

Per non parlare delle chiamate. Questi ragazzi rimangono chiusi nei loro reparti per tutto il giorno. L’unico modo per uscire per qualche minuto è quello di andare in terapia, fare le chiamate (ma solo se ti arriva il turno perché se in quei 10 min in cui esci nessuno ti risponde,  che siano i familiari o che sia l’avvocato, è la fine!! Significa che devi aspettare il giorno dopo). 

I detenuti devono pagare quotidianamente delle ricariche da 5 euro per parlare al telefono con i familiari soltanto per qualche minuto.

Quando presentai il problema ad una responsabile dicendo: “ma com’è possibile, siamo nell’era di whatsapp  e di facebook, nell’era delle chiamate gratuite, come fanno dei detenuti (che sono detenuti ingiustamente), senza un reddito e spesso senza nessun familiare in Italia, a pagare 5 euro per una chiamata al giorno? perché non diamo loro i cellulari, almeno possono utilizzare whatsapp”, la sua risposta è stata: “eh ma loro utilizzano whatsapp per cazzeggiare”. “Per cazzeggiare? Chiamare la propria famiglia all’estero per 10 min non è cazzeggiare” ho risposto. 

Mi sono veramente incazzata quel giorno che ho chiesto le dimissioni volontarie tramite il sito dell’INPS (anche per tanti altri motivi). Ho resistito 2 settimane perché avrei voluto dare il mio contributo alleggerendo la permanenza dei ragazzi (scrivendo le loro richieste per poterle soddisfare), però mi sono resa conto che anche la cosa più semplice all’interno del CPR diventava complicata. 

I ragazzi detenuti erano molto educati e gentili con me. Mi dicevano che io non appartengo a quel posto, mi dicevano di andarmene da lì. Com’è possibile? In una situazione del genere erano loro ad essere preoccupati per me.

Mi sono licenziata perché ho preferito fare qualcosa per i ragazzi da fuori, i soldi che avrei ricevuto dalla cooperativa per me sarebbero stati dei soldi sporchi, anche di quel sangue che ogni giorno scorre in quel posto. Ho studiato per anni la tutela internazionale dei diritti umani, di cui l’Europa è il baluardo. E allora mi chiedo come sia possibile accettare un esempio così eclatante di violazione dei più basilari diritti. 

La cooperativa non agisce all’oscuro, o almeno non per lo Stato: la prefettura si trova all’interno della struttura. Quindi mi chiedo, a maggior ragione, come lo Stato possa finanziarla: i funzionari sono ben consapevoli della vita quotidiana al suo interno. E se i diritti umani fossero solo delle belle parole scritte? Mi chiedo dove sia finito il senso civico, l’umanità degli operatori e dei funzionari dello Stato che chiudono gli occhi e ogni giorno lavorano in questa struttura.

L’astensione, da parte delle istituzioni, da prese di posizione volte a cambiare questo sistema disumano non fa prospettare un futuro diverso per queste persone.  

Dopo l’esperienza nel CPR di via Corelli non spero e non posso dimenticare, anzi, è necessario ricordare e parlarne molto di più, con la pretesa che questi luoghi vengano chiusi, che queste modalità di gestione dell’immigrazione nei confronti degli “ospiti” non si ripetano in alcuna struttura, qualsiasi nome possano assumere”.