Leggere il libro di Bruna Tadolini “L’Evoluzione al Femminile” è come fare un viaggio nel tempo, quasi una storia della vita talmente affascinante che, come un romanzo, non riesci a smettere di leggerlo, ma, nello stesso tempo, centellini le ultime pagine perché ti dispiace sapere… come va a finire

1.

Bruna Tadolini ha ottenuto quest’anno il premio alla carriera “Tina Anselmi” promosso dall’UDI e rivolto a donne che si sono spese per la valorizzazione dell’opera femminile in campo professionale e sociale. Tadolini, docente universitaria di Biologia Molecolare e Biochimica oltre che divulgatrice scientifica, ha dedicato il suo lavoro al contributo femminile nella evoluzione della specie umana. Ha compendiato le sue ricerche nell’avvincente libro “L’evoluzione al Femminile”, uscito per la casa editrice Pendragon nel 2017, che reca come sottotitolo “il contributo delle femmine all’evoluzione dell’Homo Sapiens”. Il libro è davvero un romanzo d’avventura che, partendo dagli organismi monocellulari e attraversando la preistoria e poi la storia, studia le diverse strategie riproduttive dei due genitori, una volta sviluppatasi, dopo il passaggio dal RNA al DNA, la riproduzione sessuata, circa 1,2 miliardi di anni fa. La prima grande biforcazione avvenne tra Amnioti e non Amnioti: i primi organismi poterono proteggere l’embrione in un sacchetto pieno di liquido e, in seguito, circa 100 milioni di anni fa, giungere alla mineralizzazione della membrana esterna, il guscio calcificato. Da quel momento divenne compito delle femmine accudire le uova, a rischio di disseccamento o di distruzione da parte dei predatori, con la cova e la bagnatura.

Un altro passaggio fu la fecondazione all’interno del corpo della femmina, che portò i maschi a competere per accaparrarsene una; così, lentamente, vennero differenziandosi le strategie riproduttive: femminile, la cura, e maschile, la competizione. Colpisce in questa storia evolutiva che quella che potrebbe apparire come una scelta etico-politica o come una differenza di ordine filosofico, l’alternativa cioè tra solidarietà e relazione da una parte, aggressività e guerra, dall’altra, sia invece molto più profonda e biologicamente fondata.

Circa 310 milioni di anni fa, conquistate ormai le terre emerse, si sviluppò la lattazione: alcune ghiandole addominali secernevano un liquido umettante che contribuiva alla formazione del sistema immunitario dell’embrione e aveva funzione non solo nutriente ma anche disinfettante, precursore del latte. Il latte, ricco di zuccheri e grassi, fosforo e calcio, venne più tardi secreto dalle ghiandole mammarie e, al contempo, i primi Mammiferi svilupparono la placenta che li rese vivipari. L’embrione, che veniva crescendo entro il corpo della madre, con un 50% di patrimonio genetico paterno, era immunologicamente incompatibile con lei: era un invasore e la madre una preda. Bisognò che la madre modificasse i suoi geni per consentire la reciproca convivenza. Inoltre alla nascita il neonato non era autosufficiente, ma ancora bisognoso dell’accudimento materno, come mostra l’esempio dei Marsupiali.

La coabitazione tra madre e feto è regolata da ormoni presenti nella placenta, come il progesterone che impedisce, controllando l’ipotalamo, una nuova ovulazione e un nuovo concepimento. L’ipotalamo a sua volta produce l’ormone ossitocina, che induce il parto e la lattazione. Potremmo dunque definire l’ossitocina l’ormone della cura e questo splendido libro che ne narra la storia il romanzo d’avventura dell’ossitocina.

Anche il bipedismo fu probabilmente una conquista delle donne, come testimonia lo scheletro di Lucy risalente a 3,2 milioni di anni fa e rinvenuto nel 1974 in Etiopia. Un inaridimento del clima e dell’ambiente, circa 3,6 milioni di anni fa, costrinse gli scimpanzè a scendere dagli alberi, dove si rifugiavano, in cerca di cibo nelle savane; le madri di gibbone e orangutan trasportavano i piccoli appoggiandoli ad un fianco ed avevano necessità di sostenerli perché non scivolassero, di qui la deambulazione bipede! Dunque il bipedismo è appreso, è una risposta adattiva “culturale” e, ancora una volta, è effetto di un atteggiamento di cura! Come pure i legami affettivi, base fondativa della nostra socialità [vedi seconda parte dell’articolo], che hanno una finalità utilitaristica: dall’ossitocina dipende la relazione madre-figlio, la risposta al richiamo del cucciolo; ma anche le cure paterne, la monogamia, che garantisce al maschio la riproduzione certa del proprio DNA, la disponibilità di altre madri del branco ad accudire cuccioli non propri, cioè la cooperazione tra le femmine e la matrilinearità sono tutte strategie funzionali alla sopravvivenza della specie.

Pare proprio che la solidarietà invece che lo struggle for life sia più utile all’evoluzione. L’empatia, l’altruismo, il controllo dell’aggressività nascono da circuiti neurocerebrali che, sotto la spinta degli ormoni appropriati, le femmine hanno sviluppato per la gestione collegiale della prole. Come le relazioni affettive anche le funzioni cognitive complesse, dalla memoria al ragionamento causale, dalla capacità di insegnare al linguaggio, sono risultati evolutivi di matrice sociale e legati da principio all’allevamento materno dei piccoli e alle necessità del loro apprendimento.

Negli ultimi capitoli, infine, Tadolini passa ad esaminare l’evoluzione dell’Homo erectus, habilis, sapiens, da cacciatore e raccoglitore nomade ad agricoltore sedentario, ed esplora le conseguenti trasformazioni dei ruoli fra i due sessi. Con l’agricoltura le femmine, da semplici raccoglitrici, videro ridursi drasticamente le loro possibilità di contribuire in modo indipendente e significativo all’approvvigionamento alimentare della famiglia; […] il contadino invariabilmente utilizza il lavoro di altri membri della famiglia; tende ad accaparrarsi più femmine reintroducendo la poligamia; chi possiede più ricchezza materiale è vincente nella competizione fra maschi. Con la stanzialità, dunque, al matriarcato succede il patriarcato; all’equilibrio nella catena alimentare un crescente sfruttamento del suolo e delle acque. Con l’abbondanza, infatti, alle strategie riproduttive femminili, cura di un piccolo numero di nati in proporzione con le risorse ambientali, si sostituiscono quelle maschili, fecondazione di quante più femmine possibile per propagare il proprio DNA. L’esito ultimo sono le guerre e l’emergenza ambientale dell’attuale globalizzazione, l’aumento esponenziale della popolazione umana sulla Terra con le catastrofi ecologiche che sta producendo. L’autrice non dà “ricette per l’osteria dell’avvenire”, ma è tanto sottinteso quanto lampante il suo monito a seguire l’esempio delle donne.

2.

L’autrice nella presentazione del libro, si pone e ci pone, alcune domande-cardine: le donne sono veramente diverse dai maschi? Ne sono veramente un prodotto mal riuscito, un’entità negativa, sottoprodotto dell’uomo se non addirittura causa di tutti i mali, come la tradizione culturale e religiosa ci ha fatto credere? Ed è per questo che meritano un ruolo subalterno tanto da essere pesantemente discriminate nella maggior parte delle società umane odierne?

A partire da queste domande inizia il lungo viaggio nel passato più remoto che ci porta a scoprire come, in realtà, le femmine non solo non hanno svolto un ruolo di comparse nell’evoluzione dell’Homo sapiens, ma anzi ne sono state le protagoniste. Sono state loro infatti che nel corso di miliardi di anni si sono fatte carico dell’acquisizione di caratteristiche che si sono dimostrate vincenti nella lotta per la sopravvivenza in ambienti sempre più difficili e che hanno acquisito quelle differenze anatomo-fisiologiche-comportamentali, le “pietre miliari” della nostra evoluzione, atte a superare le difficoltà incontrate nei mutevoli ambienti e attraverso cui si è svolta l’evoluzione dei maschi e delle femmine.

Il viaggio ci riporta dunque alle origini della vita, alla riproduzione molecolare che ne è la base grazie alla capacità di trasmettere il patrimonio genetico degli individui alle generazioni successive, alla riproduzione sessuata attraverso cui hanno origine individui con nuove caratteristiche. E via via alla scoperta delle strategie riproduttive più adatte ad assicurare la sopravvivenza della o delle specie, e soprattutto alla scoperta che al raggiungimento di questo obiettivo hanno contribuito in maniera determinante le femmine che, proprio per questo dovettero cambiare non solo il proprio corpo, ma anche la loro mente, con lo sviluppo embrionale e con le cure parentali e le innumerevoli soluzioni alternative messe in campo per la salvaguardia della cellula riproduttiva femminile, l’uovo, senza le quali la sopravvivenza in ambienti difficili sarebbe stata impossibile.

D’altra parte, ci fa riflettere l’autrice, anche il nostro appartenere ai Mammiferi (animali dotati di mammelle) e ai Placentati (animali dotati di placenta) la dice lunga sul ruolo fondamentale delle femmine che, attraverso i cambiamenti del proprio corpo, mettono in atto strategie che consentono ai Mammiferi di sopravvivere e di nutrire con la lattazione e le ghiandole mammarie, un embrione nato precocemente e quindi non in grado di nutrirsi autonomamente. E per far questo diventano essenziali i legami affettivi e i legami sociali, in primis il legame madre-figlio, ma anche con individui adulti diversi, soprattutto con altre donne, le madri, le sorelle, per trovare un aiuto concreto nella cura della prole.  Quei “circuiti sentimentali” femminili, quei “legami affettivi umani” che legano fra loro i partner sessuali, i membri di una famiglia nella cura cooperativa della prole e nello sviluppo di capacità cognitive essenziali come il linguaggio, anche questo compito femminile perché legato all’esigenza di fornire alla prole informazioni utili per raggiungere l’età riproduttiva.

Leggendo il libro non si può non riflettere, da un punto di vista didattico, sui manuali di storia per le scuole, tutti centrati su una ricostruzione “homocentrica” della Preistoria, in cui il ruolo maschile appare fondamentale per la sopravvivenza della specie  e quello femminile  tratteggiato,  nel migliore dei casi, in poche righe o in qualche documento a piè pagina, di solito legato alla sfera religiosa e spirituale o all’esistenza di una primitiva società matriarcale, sostituita da una solida società patriarcale;  e su quale impatto potrebbe avere nell’immaginario di giovani studentesse e nella costruzione di una identità di genere, la scoperta del contributo femminile all’evoluzione della specie e il ruolo fondamentale giocato dalle loro antenate per la sopravvivenza e il successo della civiltà dei sapiens.

“La storia delle donne, una questione di confine”, così la storica Gianna Pomata titolava il saggio che, dagli anni ’80 in poi, ha dato uno scossone alla storia ufficiale, la storia del mutamento rapido, del progresso in cui le donne vengono considerate “un’enclave del primitivo”, di un mutamento lento, qualcosa di non storico. Le donne stanno ai margini della storia, in una ambigua posizione tra il mondo storico dell’azione e quello arcaico del rito; la natura e le caratteristiche fisiologiche del corpo le assegnano una condizione universale di inferiorità e subalternità, così come la natura viene assoggettata dall’uomo e la stessa riproduzione è stata vista come un oggetto di analisi poco rilevante.

La storia delle donne è una storia che si pone in questa linea di confine, fatta di sbalzi e di curve tortuose, avanzamenti e ritorni indietro, niente di lineare come ci viene prospettato dalla storia classica delle epoche, tutta incentrata sul progresso positivo dell’umanità. È una storia di lunga durata che scorre parallelamente a quella degli eventi, quella dei libri, quella ufficiale, come un fiume sotterraneo che ogni tanto riemerge, riaffiora in superficie e ci racconta altro, ci racconta le reti di relazione, il “maternage”; ci racconta la “resilienza”, i rapporti di potere-sottomissione, le armi nascoste per la sopravvivenza della specie.

Niente è più complesso dei messaggi del corpo. Per cogliere la complessità del nostro presente abbiamo bisogno di più sguardi, di uno sguardo incrociato fra più discipline. Questo sguardo interdisciplinare, questo terreno di confine è il campo conoscitivo dischiuso dagli studi sulle donne, è l’idea di un rapporto di collaborazione, anziché competitivo e conflittuale, tra scienze biologiche e scienze umane, tra processi mentali e corporei, tra stimoli fisiologici e stimoli culturali, insomma, tra mente e corpo.

Il libro della Tadolini si pone in questa “linea di confine”, perché parla di “corpi”, di rapporti tra i sessi, di “intelligenza” dell’evoluzione; pone domande, dà risposte ma non ha paura di “ipotizzare”, proprio come fanno gli storici. Ci spiega l’origine dei legami affettivi delle cure parentali che, ancora oggi, sono appannaggio delle donne; il sacrificio per la cura della prole, il legame madre-figlio, la cooperazione tra donne ma anche la nascita dei rapporti monogamici e la cooptazione del maschio nella cura dei figli.

E come un ponte tra passato e presente il libro ci parla di quello che noi oggi siamo, uomini e donne, ci parla di cura e incuria verso l’ambiente; questo libro non ci racconta solo una storia remota dell’umanità, non ci racconta solo il passato ma ci parla del presente, ci pone delle domande vitali, ci costringe a riflettere sul futuro dell’umanità e della nostra specie.  Ci porta a sperare che quella strategia femminile cooperativa, a rete, che ha permesso alla nostra specie di riprodursi e sopravvivere, soppiantata da una strategia verticistica, che non permette la condivisione delle risorse con i più deboli, possa adesso salvare l’umanità, uomini e donne, da una fine, ahimè, probabile per la specie Homo sapiens e da una catastrofe ecologica.