I brani che seguono sono tratti dal libretto “Pagine di Giorgio Latis”, pubblicato in proprio subito dopo la guerra dai suoi amici. Si ringrazia Natalia Latis per aver fornito tutta la documentazione.

Cenni biografici

Giorgio Latis, il partigiano Albertino, era nato a Modena nel 1920 da una famiglia ebraica con cui da bambino si era trasferito  a Milano. Chi lo aveva conosciuto nei primi anni della guerra ricordava un ragazzo esuberante, pieno di iniziative e curiosità molteplici nel campo del teatro, della fotografia e dell’arte.

Molti dei suoi parenti e conoscenti, dopo l’8 settembre, avevano cercato scampo in Svizzera. Anche i suoi familiari – madre, padre e sorella poco più giovane – avevano tentato di varcare la frontiera, ma, respinti e denunciati, erano stati arrestati e deportati; non se n’è più avuta notizia. Cosciente della sua solitudine e del suo compito, egli era rimasto in Italia e si era dedicato anima e corpo alla lotta clandestina.

Dapprima lavorò in Brianza e a Milano organizzando squadre di combattenti ed entrò in contatto con il Partito d’Azione. Nel 1944 venne arrestato, ma riuscì a fuggire da San Vittore con un’audace evasione. Venne quindi inviato a Torino, dove fu un instancabile organizzatore di collegamenti, lanci, sabotaggi.

La sua causa più importante era la fraternità con i compagni in pericolo, amici o sconosciuti che fossero: organizzava l’assistenza ai detenuti di cui cercava di ottenere la liberazione con scambi di prigionieri nazifascisti  o evasioni. Riuscì a far evadere due partigiani condannati alla fucilazione dalle carceri di Vercelli e di Alessandria spacciandosi per un repubblichino ed esibendo documenti falsi. “Quello che ho fatto prima non conta, ma ora ho salvato la pelle a quei due” disse in quell’occasione.

Il suo destino lo spinge avanti. Le nubi dell’ultima tempesta sono vicine. Albertino vuole liberare i prigionieri delle Carceri Nuove di Torino per timore di un’ultima rappresaglia, ma il piano fallisce all’ultimo momento.

Il 26 aprile 1945 Torino è insorta, ma le formazioni partigiane sono bloccate sulle colline da un contrordine degli Alleati. Nel pomeriggio arriva l’ordine di avanzata. Albertino si offre di portarlo e parte in macchina per l’ultimo incarico, passa un posto di blocco con falsi documenti da medico e consegna l’ordine di insurrezione ai compagni. Al ritorno viene di nuovo fermato da un altro gruppo di fascisti, che lo perquisiscono trovando documenti compromettenti e la pianta delle Carceri Nuove. Una scarica di mitra lo abbatte sul limitare della collina, del mondo forte, ridente e sereno che tanto amava.

Le pagine che ha lasciato, scritte nei rari momenti di riposo, sono un messaggio di profonda  sensibilità poetica e ci parlano di tutti quelli che sono morti per noi.

La piccola e la grande storia del mercante – Racconto scritto nell’aprile 1945

Quando cade qualcuno nel grande viaggio attraverso il deserto, di rado si rialza; giace là dove le forze gli sono mancate a un tratto, senza difesa alcuna dalla furia  degli elementi che si accaniscono su di lui.

Poi spesso giunge la Morte consolatrice ed è una grazia; se tarda sono infatti tormenti e sofferenze quali l’inferno medesimo non saprebbe riservare ai peccatori più colpevoli e abbietti; sicché il caduto giunge ad invocarla come una sorella benefica e misericordiosa.

Il deserto reca le tracce di molte strade e di assai cadute: là si interrompono repentine, simili a gomitoli di lana lanciati su un immenso tappeto e non interamente srotolati. Il Mercante anch’egli giace al termine di una di queste tracce, senza volontà apparente di vita per quanto gli sia riuscito di adagiarsi, nel cadere, in simile posa che il sollevarsi ove non manchi di forze, non gli sia impresa del tutto irraggiungibile.

Le sue mani stringono disperatamente alcune rade collane di pochi  grandi coralli che forse sono la sua unica ricchezza. Gli chiedevano, nei rari e subitanei incontri nel deserto: ” Cosa vuoi, Mercante, delle tue collane?”e lui rispondeva tranquillo : “Non le vendo; ma anche se le vendessi tu non avresti tant’oro che me le potesse pagare”. L’altro rideva come a uno scherzo e poi diceva: ”E allora che te le porti in giro a fare, se non ti danno da vivere?”

Era stanco il Mercante di ripetere sempre la stessa cosa; e sì che anche gli altri, tutti, avevano le loro collane: “Appunto per vivere le devo conservare e mai denaro mi potrebbe dare tanta vita:” Ma nessuno, quasi, capiva e lui seguitava da solo a sgranare le sue collane come fossero rosari, da una mano all’altra, carezzando i coralli con dita lievi e golose, quasi al tatto avessero potere di rivelargli il mistero della loro opaca lucentezza.

Ma ora anche lui è caduto, il Mercante: forse aveva creduto di sostenersi per virtù magica delle sue collane e questo pensiero lo aveva veramente sostenuto fino allora; pensa agli altri, partiti come lui, prima di lui, e poi incontrati, morti o morenti, o sfiniti dalla solitudine del deserto, senza un segno, un ricordo, una croce; anzi anch’essi bruciati, come la sabbia, loro che erano sempre vissuti tra delicate immagini di fiori e venti profumati.

Dio, quanti fiori in quella città, mai se ne videro tanti come allora ed i giardini invadevano le corti e le strade: chi non aveva serra collocava vasi di rose sui balconi e sui davanzali, oppure le dipingeva sui muri in ingegnose imitazioni che mutavano le case in aiuole fiorite: ognuno guardava i vicini e pensava a com’erano tutti contenti, senza però saper penetrare – o senza forse ”voler” penetrare- l’artificio di quel mondo che ciascuno colorava per il suo prossimo affinché il prossimo lo colorasse per lui medesimo e la sua tranquillità: pari a tanti struzzi  essi, i cittadini, miravano stolidamente il suolo per consolarsi alla bruna solidità della Madre Terra, ma specialmente per non leggere negli occhi degli altri l’ansia che questi avrebbero potuto apprendere dai loro stessi occhi.

Allora il Mercante non era il Mercante: aveva un nome, una professione, una casa e non portava collane. Non ci aveva pensato sino al mattino in cui fu chiaro d’improvviso il senso dei segni premonitori che da qualche tempo tutti avevano potuto scorgere e quasi nessuno comprendere: quelle larve di un mondo in cancrena recate dal vento, le nuvole di sabbia che si affacciavano all’orizzonte  e l’orribile atmosfera presaga di sventura e di morte che ciascuno si sforzava di soffocare coltivando fiori, quasi l’odore di questi la potesse davvero trasformare in freschi alisei.

Ma quel mattino nessuno poté ritrarsi davanti alla catastrofe: là dove maggiormente fioriva la loro terra, una immane tempesta aveva disteso sui giardini una fitta coltre di sabbia. Sin quando l’occhio poteva spaziare all’orizzonte, la campagna era sommersa da un deserto senza limite, che giungeva sin sotto le prime case: nella notte tutti i fiori erano avvizziti e con essi l’euforia dei cittadini. Si guardavano adesso negli occhi finalmente sinceri per l’orrore, ma senza sapersi riconoscere, i più, dopo tanta incosciente cecità.

I più esposti al pericolo del deserto avanzante furono i soli o quasi, a riconoscerlo a viso aperto, disposti e forse decisi ad affrontarlo; sebbene i ricchi, anche fra essi, ed erano la maggior parte, abbandonassero silenziosi le case ormai segnate per rifugiarsi coi loro soldi in altre terre più sicure, senza dir nulla ad anima viva per timore di non trovarsi poi, essi medesimi, a tutto loro agio.

Quanto agli altri che non si credevano minacciati, cintarono solidamente le loro case per non correre rischi di esser costretti a dividerle coi pericolanti e invece di rose allevarono cani robusti e feroci che facessero guardia alla loro sicurezza.  Questo fu tutto l’insegnamento che ne seppero trarre.

Cadere nel deserto significa rimanere sottratti agli sguardi del mondo circostante; vuol dire naufragare e confondersi nel perpetuo ondeggiare delle falde immote di sabbia e in esse giacere prigionieri. Non c’è invocazione di aiuto che possa vincere il clamore del silenzio e della solitudine, né orecchio di viandante che lo possa raccogliere, così chi cade è veramente perduto e mai nessuno potrà aiutarlo a sollevarsi se egli  non ne avrà forze sufficienti.

Questo sa il Mercante assai bene; vi era già da prima preparato e anzi si stupiva che non gli fosse capitato ancora, tanto più che non aveva, come altri, il sostegno di un bastone e solo invece le esili collane. Anche ora che è caduto non rimpiange il bastone che gli avrebbe ricordato ad ogni istante d’esser randagio e pellegrino, mentre lui ha proceduto serenamente, godendo delle rade bellezze della natura nel suo andare: sgrana i coralli e  li ritrova ancora intatti.

Poiché la sua serenità è intera anche la sua forza non ha limite, così sul fare della sera il Mercante è di nuovo in piedi. Solo allora una figura umana che l’aveva rincorso al suo cadere lo ritrova e finalmente lo raggiunge ai margini della notte profonda: allora si ricorda di una fidanzata che aveva laggiù in città quando possedeva ancora un nome, una famiglia, una casa.

Vorrebbe al primo impulso stringerla a sé e invece si trattiene, ma questo non gli costa sforzo ormai: la saluta indifferente e la ringrazia di essersi preoccupata di lui. E lei lo guarda senza più quasi riconoscerlo, come se i suoi sguardi potessero trapassare l’ignota maschera del Mercante per ritrovare l’immagine di lui, quella vera: ”Ora ritornerai, vero?” gli dice.

Ma il Mercante non riconosce la voce che quella di prima aveva amato : “No, tu sai che io non tornerò” risponde pacato.

“Sei pazzo, sei caduto ed è un miracolo che non sei finito come gli altri, confuso nella terra”

“Per questo ora devo continuare.” Gli trema la voce e la fidanzata se ne accorge, ma non lo dà a vedere.

“Pensi davvero di non poter ricadere?”

“Penso che ricadrò, ma non posso tornare.”

Rivede la strada percorsa e gli altri che sono caduti sul cammino e lì sono rimasti, fresche e vive carni che involgevano i suoi stessi pensieri e ora si dissolvono all’orribile arsura di quel deserto che li richiama e li raggiunge e li reclama. “Amore, lasciami andare” le dice quasi con dolcezza, mentre le mani corrono alle collane e riprendono l’interminabile rosario: ma ad esse s’è aggiunto un altro corallo.

Così il Mercante riprende il suo cammino. Ora che il termine si avvicina le tracce sul deserto si fanno più rade e le cadute più numerose; anche il suo passo è stanco e greve, lo sguardo affannato e il volto rigato dai pensieri e dalle fatiche.