In un recente articolo su Repubblicadopo un intervento su La Stampa, Marco Minniti –  già sottosegretario con delega ai servizi segreti dal 2014 al 2016 e poi ministro dell’interno nel 2017 – cerca di dissociare la sua posizione da quei gruppi che in Italia ed all’estero contribuirono a montare le indagini contro le ONG, “colpevoli” di soccorrere troppi naufraghi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, e di non piegarsi agli ordini provenienti dalle autorità marittime militari di attendere l’arrivo delle motovedette libiche, o di non restituire ai loro carcerieri le persone che erano riuscite a fuggire dai centri di detenzione gestiti in combutta dalle milizie e dai trafficanti. Come se ormai gli italiani fossero tutti smemorati ed avessero dimenticato il ruolo di Minniti nell’avvio della politica dei “porti chiusi” dopo la chiusura dell’operazione Mare Nostrum (2014) ed il ritiro delle unità di Frontex (2016).

I fatti realmente occorsi durante gli anni di guerra ai soccorsi umanitari parlano chiaro, ed i documenti che adesso stanno ritornando di attualità con le intercettazioni illegali raccolte dalle forze di polizia a margine del caso IUVENTA (e non solo) inchiodano alle proprie responsabilità chi allora ordiva trame occulte per screditare le Organizzazioni non governative ed impedire attraverso i sequestri l’operatività delle navi umanitarie. Un compito che adesso viene assolto da Salvini, anche dopo che ha lasciato il Viminale, nel duplice ruolo di persona sottoposta ad indagini penali e di capo di un partito di governo.

È infatti evidente che le iniziative di polizia per attaccare le ONG sono partite in contemporanea, e questo fa molto riflettere, da parte di Frontex, degli ambienti più estremi della destra europea (come GEFIRA e Generazione identitaria) e da ambienti ben precisi del Servizio centrale operativo del ministero dell’interno (SCO), sul quale Minniti non può certo negare la sua influenza già al tempo in cui era sottosegretario di Stato con delega ai servizi segreti. Neppure le prove più evidenti che contestavano le ipotesi accusatorie erano servite per archiviare l’indagine che nel tempo si era gonfiata fino a ricomprendere anche organizzazioni come Save The Children e MSF che non figuravano neppure nella originaria lista delle organizzazioni sotto inchiesta e sulle quali non era certo intervenuto alcun giudizio di merito con la sentenza della Corte di Cassazione che nel 2018 confermava il sequestro della Iuventa per i soli profili di legittimità dell’atto, senza entrare nel merito delle accuse, ma anzi rinviando espressamente per l’accertamento dei fatti al successivo giudizio di merito. Che oggi, a quattro anni quasi dal sequestro della nave IUVENTA non si è neppure aperto, dal momento che si attende la decisione del giudice dell’Udienza preliminare dopo la consegna dell’atto di conclusione delle indagini da parte della Procura di Trapani (che nel tempo ha visto succedersi ben tre dirigenti).

Si è cercato in tutti i modi di influenzare l’esercizio della giurisdizione, e di utilizzare a fini politici informazioni riservate che semmai avrebbero dovuto essere vagliate esclusivamente dai magistrati responsabili delle indagini, senza essere offerti a personaggi come Salvini o la Meloni, magari dietro richiesta di corrispettivo, come assunzioni o incarichi, ai leader politici che poi su quelle informazioni hanno costruito una campagna di opinione che a partire proprio dal 2018 gli ha consegnato larghe fasce dell’elettorato. Non si è trattato solo di mettere in discussione il diritto al soccorso in mare sancito dalle Convenzioni internazionali, o il divieto di respingimenti collettivi affermato dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, ulteriormente rafforzato dal divieto di respingimento stabilito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Sono stati messi in discussione i più elementari diritti di difesa e di cronaca, e la tutela dei diritti umani.

Si è trattato di un vero e proprio attacco eversivo, che è partito da una gigantesca operazione di disinformazione, e di schedatura di massa di tutti coloro che a vario titolo, operatori umanitari, giornalisti, avvocati, esponenti della società civile, si impegnavano per garantire verità e giustizia nel Mediterraneo centrale e per scoperchiare la gravità, che si voleva tenere nascosta, delle violazioni dei diritti umani subite dai migranti in Libia. Un attacco eversivo perché si è cercato di imporre alla magistratura un ruolo che andava oltre la funzione giurisdizionale che le attribuisce la Costituzione, trasformando alcuni procuratori in soggetti politici e in comunicatori di una linea di contrasto degli sbarchi ben lontana dall’attuazione del principio di legalità, che pure si invocava a sostegno della lotta contro quella che si definiva soltanto come immigrazione “illegale”. I risultati a vuoto di molte inchieste parlano più di una sentenza.

La magistratura giudicante ha finora retto a questo attacco adottando numerosi provvedimenti di archiviazione delle indagini a carico delle ONG, ed è persino arrivata a mettere in evidenza la illiceità degli accordi di respingimento su delega stipulati con le autorità di Tripoli, con la sentenza Vos Thalassa a Trapani, e il grado di coesione tra le milizie, le bande criminali e settori determinati della sedicente “Guardia costiera libica”, con la sentenza di condanna dei torturatori di Zawia, emessa dal Tribunale di Messina. In altre occasioni la stessa magistratura giudicante ha messo in evidenza lo stretto coordinamento esistente tra le autorità marittime italiane e i guardiacoste libici, forniti ed assistiti a Tripoli dall’Italia, Purtroppo non sono mancate sentenze contraddittorie, come la decisione della Corte di Appello di Palermo sul caso-Vos Thalassa, che ha rimesso sotto processo quei migranti che dopo il soccorso in acque internazionali si erano ribellati all’ordine di essere ricondotti in Libia. E persino la fondamentale decisione della Corte di Cassazione sul caso-Rackete, che lo scorso anno sanciva come lo sbarco dei naufraghi fosse il doveroso completamento delle operazioni di soccorso, rischia di essere oscurata dal rilancio delle indagini penali contro gli esponenti delle ONG e potrebbe essere persino intaccata dalle decisioni dei giudici nei procedimenti penali che riguardano il senatore Salvini, che tende ad escludere ad ogni costo la ricorrenza di un obbligo di sbarco dei naufraghi, in nome della difesa dei confini. Questa e non altra la sua linea difensiva, come se davanti ad un tribunale dello Stato il fine potesse giustificare i mezzi.

Dentro questo nuovo scenario che vede sul banco degli imputati gli uomini e le donne più rappresentativi di quel vasto settore della società civile che in questi anni ha contribuito a salvare decine di migliaia di persone, mentre gli Stati ritiravano od oscuravano i loro mezzi, presenti nel Mediterraneo centrale, si sta infatti cercando di nascondere l’esito dei processi nei confronti del senatore Salvini per i casi Open Arms a Palermo e Gregoretti a Catania.

Alla vigilia di una stagione che si annuncia densa di sbarchi e di soccorsi in mare, nella quale potrebbero perdere la vita altre migliaia di persone, mentre la situazione in Libia rimane assai confusa per la presenza ancora preponderante di forze armate straniere, soprattutto di quelle milizie inviate dalla Russia e dalla Turchia che scorazzano ancora in armi da una parte all’altra del territorio libico, occorre fare chiarezza non solo sui processi, ma anche sulle modalità con le quali si è cercato di utilizzare la funzione giurisdizionale per raggiungere lo scopo politico di eliminare dal campo le Organizzazioni non governative, screditandone gli interventi e colpendo qualsiasi forma di raccolta fondi, che per tutte le ONG impegnate nei soccorsi in mare costituisce un aspetto centrale dell’attività che può svolgersi soltanto se si raccolgono gli ingenti finanziamenti che necessitano. Intanto il blocco delle navi umanitarie, che prosegue anche attraverso i fermi amministrativi, sta permettendo alle motovedette libiche di intercettare in acque internazionali, dove ormai mancano soccorritori e testimoni, migliaia di persone che vengono riportate a terra e riconsegnate ai loro carcerieri. Non sono “salvataggi”, come sosteneva ieri Draghi ed oggi ribadisce Salvini, sono sequestri di persona. È quello che affermano OIM ed UNHCR quando definiscono non sicuri per i naufraghi i porti della Libia. Ed è della stessa opinione il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa e la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite.