L‘ergastolo è una sorta di medicina, tanto forte da uccidere il peccato ed il peccatore, o meglio di più il peccatore che il peccato. La perpetuità della pena detentiva, il suo essere destinata a non finire mai, cambia infatti radicalmente la condizione esistenziale del detenuto, il suo rapporto con sé stesso e con gli altri, la sua percezione del mondo, la sua raffigurazione del futuro. Come tale l’ergastolo non è comparabile con la reclusione temporanea, così come non lo è la pena di morte. È un’altra pena, appunto, “capitale”. In un duplice senso. Perché è una privazione di vita, e non solo di libertà: una privazione di futuro, un’uccisione di speranza. Si arriva a pensare e a scherzare sul fatto che morire prima del tempo è un guadagno e un dispetto allo stato, perché è atroce continuare a vivere e a soffrire senza misura e senza speranza. Non si sa più, tra noi ergastolani, se augurarsi lunga o breve vita.

Con l‘ergastolo si diventa quasi immortali, si pensa poco alla libertà e la morte quasi non fa più paura… Si può stare in prigione tutta una vita, ma non certo con il pensiero di starci tutta la vita. È troppo chiedere a questo stato, a questa società, a questa legge quando finirà la mia pena? L‘ergastolo è l‘inutilità della pena ed il fallimento della speranza perché all‘ergastolano non manca solo la libertà, ma anche la speranza di potervi giungere poiché la libertà diventa una probabilità, un caso, una concessione.

Ecco la quinta testimonianza di un ergastolano:

Che cos’è l’ergastolo per me? L’ergastolo per me è la fine di tutto, dire ergastolo sembra una cosa normale per chi non lo conosce, ma è un male incurabile per chi lo prova e ci vive ogni giorno. Non ci sono medicine o cure compassionevoli che ti possano guarire e alleviare la durezza della vita che ti resta da vivere. I giorni che affronti sono un grande impegno di sopravvivenza, perché non puoi azzardarti a mettere in piedi un progetto: nulla è possibile e realizzabile. Penso a questo perché mi trovo con una condanna all’ergastolo da un po’ di anni. In primo grado mi avevano dato trent’anni, ma purtroppo per chi non sa cosa sia il carcere trent’anni sono pochi per essere soddisfatti… come se trent’anni fossero un gioco da ragazzi da scontare! Ma credetemi, trent’anni sono una generazione che cambia.

Così mi hanno dato il massimo, l’ergastolo. Da quel giorno mi sento un morto che cammina, con i familiari la vita è diventata sempre più spenta. Ho due figli meravigliosi che sono la mia forza, altrimenti non avrebbe nessun senso continuare a vederci, non c’è dialogo che si possa fare, il dialogo è spento come quando vai al cimitero e parli con i tuoi cari: a volte riesci a sorridere con i ricordi. La differenza è che al cimitero porti i fiori, a un ergastolano porti qualcosa da mangiare. Questo è il mio parere. Penso che tra la pena di morte e l’ergastolo non ci sia differenza, l’unica differenza è che aspetti la morte, con la speranza che non c’è, perché è la speranza che ci tiene in vita. Quello che chiederei ai politici è di considerare che gli anni cambiano tutti, spero che un giorno si decidano a cambiare questa tortura senza senso, per dare un senso anche a noi deceduti vivi.