Creare gruppi di coltivatrici, installare pompe elettriche a pannelli solari, favorire l’autoproduzione di sementi. Nel cuore del Sahel – in cui ogni giorno centinaia di migliaia di persone si difendono da cambiamenti climatici, problemi di nutrizione e instabilità politiche – la Rete dei Comuni Solidali non rinuncia a promuovere progetti per sostenere le piccole municipalità nascenti, contrastare l’inquinamento e la malnutrizione, favorire l’istruzione e la salute delle persone.

Nei giorni scorsi la Francia ha fatto sapere ai paesi del G5 Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso, Mauritania e Ciad) che non ci sarà una riduzione immediata delle truppe francesi nel Sahel (dall’arabo Sahil, “bordo del deserto”). Da sempre punto strategico per scambi commerciali e culturali, oggi il Sahel – area molto ampia che taglia il continente africano dal Sahara fino all’Eritrea e che attraversa (da ovest a est) gli Stati di Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Algeria del Niger, Nigeria Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea – è al centro di una crisi multi livello che coinvolge leader politici, potenze straniere, cambiamenti climatici, intere popolazioni malnutrite e spesso soggiogate.

Dati Ocha (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del coordinamento degli affari umanitari) del 2020 denunciano 13,4 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria solo in Burkina Faso, Mali, Niger occidentale. Il numero degli sfollati interni è aumentato di venti volte: in meno di due anni, passando da 70mila a 1,4 milioni. Rispetto al 2019, il numero di persone in stato di grave insicurezza alimentare è quasi quintuplicato in Burkina Faso, quasi raddoppiato in Mali e aumentato del 77 per cento in Niger, portando il numero totale di persone che nella regione affrontano la fame a 6,6 milioni. Secondo l’Unicef oltre 535.500 bambini al di sotto dei cinque anni soffrono di malnutrizione acuta soltanto in Burkina Faso. A tutto questo si aggiungono la ferocia di Boko Haram in Nigeria e Camerun, le violente inondazioni e le situazioni instabili dei governi che hanno generato circa un milione di sfollati interni in Burkina Faso di cui il 60 per cento bambini. Per questo motivo, si aggiunge infine, un ulteriore elemento critico: la presenza massiccia di milizie straniere (Francia, Turchia, Usa, Cina e Russia. Gli Stati Uniti contano tra 6mila e 7mila soldati, per la maggior parte di stanza proprio nella regione del Sahel) ufficialmente presenti per contrastare il terrorismo, al-Shabaab in paesi dell’Africa orientale e Boko Haram e al-Qaeda in Africa occidentale e nel Sahel.

Lettera a un consumatore

Ma la storia del Sahel parte da lontano, molto lontano. Già negli anni Settanta fu redatto un Piano d’Azione internazionale per tenere sotto controllo il fenomeno della desertificazione. Non fu mai attuato, come scriveva Alan Grainger, docente di geografia presso l’università di Leeds, in Desertification, dove illustrava le cause della trasformazione del Sahel. Ecco come le edizioni missionarie in Lettera ad un consumatore del Nord (ultima ristampa: 2004) descrivono l’evoluzione della desertificazione nel Sahel a fine secolo scorso.

Una delle zone aride più vaste del mondo è il Sahel, fascia di terra a sud del Sahara, larga 750 km, che corre dall’Oceano Atlantico al Sudan investendo sei nazioni: Senegal, Mauritania, Burkina Faso, Mali, Niger, Ciad.

Il Sahel può essere suddiviso in due fasce in base alla piovosità. Quella Nord, a ridosso del deserto, su cui piove fra i 100 e i 400 mm. All’anno e quella Sud su cui piove 500, 600 ed anche 800 mm. all’anno. La fascia Nord è poco adatta alla coltivazione. Gli abitanti della zona lo sapevano e si erano organizzati a vivere di pastorizia. Secolo dopo secolo avevano imparato a trarre il miglior profitto da questa terra dove la pioggia può o non può cadere e dove la vegetazione cresce a ciuffi qua e là. Sapevano quanto bestiame potevano tenere, dove farlo pascolare e dopo quanto tempo tornare sullo stesso luogo per trovarci di nuovo dell’erba.

Del resto, liberi di attraversare le frontiere, non rimanevano confinati nella fascia nord. Durante la stagione secca, quando a ridosso del deserto la vegetazione si esaurisce, calavano a sud dove qualche pioggia continua a cadere, per pascolare le loro greggi sulle terre lasciate a riposo dai contadini. In effetti, nella zona più piovosa, la coltivazione è possibile ma con le dovute cautele. I contadini avevano imparato a seminare cereali resistenti alla siccità, come il sorgo e il miglio. Ma soprattutto avevano imparato a sottoporre i terreni a rotazione. Dopo alcuni anni di coltivazione continuata, la terra veniva lasciata incolta a disposizione dei pastori, che ringraziavano dell’accoglienza arricchendo il terreno con gli escrementi delle loro bestie.

In alcune regioni veniva data la possibilità a un particolare tipo di acacia di invadere i campi a riposo. Dopo cinque anni i loro tronchi potevano essere incisi per ottenere gomma arabica. Dopo dodici le acacie venivano abbattute per ottenere legna da ardere. Nel frattempo, sul terreno protetto dalla vegetazione, si riformava l’humus necessario per un nuovo periodo di coltivazione.

A partire dagli anni Cinquanta quest’equilibrio ha cominciato a rompersi per la coltivazione massiccia di due prodotti per l’esportazione: le arachidi e il cotone. Per la verità i colonizzatori già da un secolo avevano forzato il Sahel a produrre queste colture, ma per le necessità dell’epoca bastavano le terre meridionali, dove la piovosità è ottimale per queste piante. Dopo la seconda guerra mondiale, la richiesta di arachidi da parte delle fabbriche olearie europee aumentò considerevolmente per fronteggiare la concorrenza dell’olio di soia americano. Per incentivare la coltivazione di arachidi furono garantiti prezzi stabili alla produzione.

Tuttavia le condizioni di vita dei contadini peggioravano, perché il cibo, divenuto più scarso, aumentava di prezzo. Per tutta risposta i contadini accorciavano i tempi di riposo, in modo da avere più raccolti da vendere. Nel frattempo fu messo a punto un tipo di arachide che cresce più in fretta e che ha bisogno di meno acqua. Da una parte ciò stimolò i contadini a fare due cicli produttivi all’anno sul medesimo appezzamento di terra. Dall’altra fece espandere la coltivazione più a nord, dove la piovosità è più bassa e le terre più fragili. Ad esempio, mentre nel 1933 il Niger dedicava alle arachidi circa 73.000 ettari di terra, totalmente localizzati nella fascia sud, nel 1954 ne dedicava 142.000. Nel 1961 ne destinava 349.000 e nel 1966 492.000, la maggior parte dei quali localizzati nella fascia nord.

L’accorciamento dei tempi di riposo e lo sfruttamento intensivo hanno ridotto la fertilità dei terreni in tutto il Sahel meridionale. In Senegal, ad esempio, la produzione di arachidi è scesa da 2,5 tonnellate per ettaro nel 1940 a una tonnellata per ettaro negli anni ‘70. Nel Niger meridionale, viceversa, la produzione di cereali è scesa dai 500 chili per ettaro nel 1920 ai 350 chili del 1978. Si presume che nel 2000 scenderà a 250 chili per ettaro. Ma a fare le principali spese di tutte queste novità furono i pastori nomadi, come rinchiusi in un corridoio sempre più stretto, limitato a nord dal deserto e a sud dai campi super coltivati non più disponibili per il pascolo. Terre aride, ai limiti del deserto che hanno bisogno di lunghi riposi per rigenerare i pascoli, non possono mantenere vaste quantità di greggi in sosta permanente.

Bastò un ritardo della caduta delle piogge per procurare la catastrofe. Nel 1968 le piogge caddero presto e abbondanti, ma cessarono altrettanto presto in maggio. I semi morirono prima che tornasse la pioggia in giugno. Alla fine della stagione secca, nel gennaio 1969, cominciarono a morire i primi animali. Di fame, non di sete. Anche nel 1970 le piogge caddero in ritardo e le popolazioni del nord furono le più colpite. Quando il magro raccolto del 1970 fu esaurito circa 3 milioni di persone avevano bisogno di soccorso alimentare. Anche il 1971 e 1972 furono annate di pioggia sotto la media. Ma solo nel 1973 la vera dimensione della tragedia fu annunciata ufficialmente: erano morte 200.000 persone e 3 milioni e mezzo di capi di bestiame. Secondo un rapporto dell’organizzazione degli Stati del Sahel “ i periodi di prolungata siccità in un certo senso sono un fenomeno normale per il Sahel e la siccità del 1968 – 1973 non è da considerarsi eccezionale”. Eppure il danno fu eccezionale perché la siccità si era impiantata su una situazione già precaria di per sé, che le arachidi avevano contribuito a formare.

È evidente che già allora c’erano tutti gli elementi per capire ed evitare le attuali conseguenze.

Che fare? La Grande Muraglia Verde

Già nel 1952 il biologo Richard St. Barbe Baker, durante una spedizione nel Sahara, propose una “barriera verde” per contrastare l’avanzata del deserto: una lunga fascia alberata larga 50 chilometri. Sono dovuti trascorrere oltre cinquant’anni prima che il GGW (Great Green Wall in inglese) diventasse un’iniziativa concreta, promossa dall’Unione Africana nel 2007 e strutturata per migliorare le condizioni di vita di cento milioni di persone facendo crescere alberi, praterie, vegetazione e piante lungo un territorio di 8.000 chilometri e largo 15chilometri.

Dall’idea iniziale di una linea di alberi che corresse da est a ovest lungo il deserto africano, la concezione della Grande Muraglia Verde si è evoluta in un mosaico di interventi indirizzati verso le sfide che si trovano ad affrontare le persone e le comunità nel Sahel e nel Sahara: rigenerare 100 milioni di ettari di terra degradata entro il 2030, sequestrare 250 milioni di tonnellate di carbonio e creare 10 milioni di posti di lavoro in aree rurali, contribuendo direttamente agli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Un progetto ambizioso in cui ad oggi, sono stati investiti circa 14 miliardi di dollari statunitensi (dei 33 miliardi stimati come necessari per completare il progetto entro 2030). Più complesso è capire quali siano i risultati effettivamente raggiunti. Secondo i dati ufficiali della Convenzione per la lotta alla desertificazione delle Nazioni Unite (Unccd), risultano 28 milioni gli ettari di terra rigenerati a cui si devono aggiungere 12 milioni di alberi piantati, in cinque paesi dei venti che hanno aderito al progetto. In dieci anni sarebbe stato raggiunto il 15 per cento dell’obiettivo finale. Non si parla invece di posti di lavoro. Secondo un rapporto pubblicato da Nigrizia nel 2020, “i numeri cambiano molto se utilizziamo come fonte ufficiale l’Agenzia panafricana: tre milioni di ettari rigenerati in 11 paesi e 11.000 posti di lavoro permanenti creati. Sono ancora diverse le cifre se teniamo conto dei numerosi programmi nati in appoggio alla Gmv. Non tutti i paesi sono allo stesso punto. Il Senegal si potrebbe definire il paese leader della Gmv, essendo stato il primo a definire un piano d’azione. Il paese dell’Africa occidentale avviò il programma già nel 2008, prima che nascesse l’Agenzia panafricana per la Gmv. E diventò presto promotore del progetto anche presso gli altri capi di stato e di governo africani. Il Senegal è stato l’unico ad adottare l’idea iniziale di grande muraglia, cominciando a piantare alberi su una fascia larga 15 km nelle regioni di Tambakounda, Matam e Louga. Secondo i dati dell’Agenzia panafricana, il Senegal avrebbe coperto circa il 50% dei 15 km”.

Comunque sia il GGW resta un progetto importante, anche se attualmente sembra una corsa contro il tempo: l’Onu stima che ad oggi circa l’80 per cento dei terreni agricoli del Sahel sia inutilizzabile e la produzione alimentare è sempre più minacciata. In Nigeria sono stati danneggiati 500mila ettari di campi coltivati, ma la situazione più grave si è verificata in Sudan, dove dal mese di luglio 2020 si sono verificate piogge torrenziali che hanno portato alla rottura degli argini del Nilo e in Sud Sudan le piogge insistenti hanno provocato danni immensi: 600mila sfollati, un centinaio di morti e l’aumento della fame.

Non solo muraglia: In Italia la cooperazione decentrata di Recosol

La Rete dei Comuni Solidali (Recosol) nasce nel 2003 su iniziativa di cento Comuni piemontesi per promuovere la cooperazione decentrata. Progetti e iniziative mirate, con inizio e fine certa, per migliorare le condizioni di vita nel Sud del mondo e che contribuissero a stimolare una coscienza civile sui grandi temi del nostro tempo: malnutrizione, inquinamento, desertificazione, cooperazione, migrazioni.

Con questi presupposti sono stati avviati diversi progetti in Sahel per sostenere le piccole municipalità nascenti, contrastare l’inquinamento e la malnutrizione, favorire l’istruzione e la salute dei cittadini.

Il Sole per l’Acqua, progetto in Niger

Il Niger è formato da una prevalente parte sahariana a nord, quindi desertica e pochissimo abitata e da una fascia a sud di tipo saheliano, ossia savana semi arida. La popolazione è stimata in circa 20 milioni di abitanti e le etnie residenti sono molte, così come si parlano più lingue, mentre la lingua amministrativa è il francese, ovviamente di origine coloniale. I conflitti interetnici sono in crescita e recentemente si mescolano con quelli di stampo integralista a sfondo religioso. In tal senso la sicurezza del territorio, a fronte di una storia sostanzialmente pacifica, è in peggioramento. Negli ultimi anni attacchi, sequestri ed omicidi si sono moltiplicati anche verso cooperanti europei.

Il paese è stabilmente collocato agli ultimi posti al mondo in base all’indice di sviluppo umano della Undp. Il tasso di analfabetismo supera il 75 per cento. Il Pil pro capite stimato dalla Banca Mondiale nel 2018 è inferiore ai 400 €/anno. Nei villaggi l’alimentazione è scarsa e inadeguata: mancano vitamine, sali, proteine e spesso l’unica coltivazione è il miglio. Il reddito monetario delle famiglie non consente l’accesso a beni primari come le medicine di base o i libri di scuola. Le donne non dispongono di denaro, ma sono caricate di quasi tutte le fatiche familiari.

Il progetto ha permesso la costituzione formale di gruppi di coltivatrici, perché questa attività, spesso mai praticata nel villaggio, possa essere visibile e riconosciuta e ha promosso la disponibilità stabile dei terreni da coltivare attraverso contratti di assegnazione di almeno dieci anni, sotto l’egida dei sindaci e capi villaggio. Sono stati installati sistemi di pompaggio con pompe elettriche a pannelli solari che non necessitano di combustibili ed hanno bassa manutenzione. Inoltre, grazie alla presenza di un agronomo locale è stato possibile ottimizzare la scelta delle specie da coltivare, insegnare l’autoproduzione di sementi e l’impiego dei concimi adeguati. Tutto ciò aiuta i gruppi ad acquisire capacità di gestione e di vendita dei prodotti dell’orto, impiegando formatrici locali che hanno esperienza e conoscenza delle culture, delle tradizioni e conoscono la lingua e garantisce all’avvio del microcredito per le sementi, i concimi, gli attrezzi finalizzato al raggiungimento dell’indipendenza economica.

I risultati? Otto orti attivi localizzati nella regione di Niamey (Kongou Zarmagandaye, Kongou Gorou, Gorou Banda, Hamdallaye, Bartchawal Keina, Lougal Habba, Yatte Koira, Gardama Kwara), in villaggi dove c’era bisogno di dare impulso a un’economia locale non di pura sussistenza, ma per avviare un embrione di sviluppo. Circa 530 donne stabilmente coltivano e vendono i prodotti dell’orto. Oltre il 70 per cento del raccolto è venduto ai mercati zonali o della capitale. Inoltre, in ogni orto le colture sono differenziate in base alle stagioni ed alle richieste dei mercati. È migliorata l’alimentazione dei gruppi famigliari coinvolti (circa 6.500 persone), potendo acquistare farmaci di base, si sono ridotte, specie nei bambini, alcune patologie quali le congiuntiviti o le infezioni intestinali. Si coltivano quasi tutti gli ortaggi noti da noi, ma anche specie locali tradizionali, ottenendo almeno tre raccolti all’anno. Sementi e concimi vengono spesso autoprodotti con crescita della redditività degli orti e della competenza agronomica. Sono fiorite attività collaterali all’orto come la manutenzione degli impianti, la conservazione e il trasporto dei prodotti, il piccolo allevamento.

Un detto africano dice: “Se vuoi arrivare primo, corri da solo. Se vuoi arrivare lontano cammina insieme”. Con questo spirito Recosol getta piccoli semi di speranza nel grande mare dell’indifferenza.

 

 

 

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