Il detto “i soldi non fanno la felicità” ha sempre fatto un po’ sorridere. Sembra nato per consolare chi con i soldi deve farci i conti, non tanto per capire come spenderli, ma piuttosto per capire se bastano. Anni di studi e decine di economisti hanno evidenziano che è “la crescita economica” l’unico modo sicuro per aumentare il benessere delle persone anche e soprattutto nei Paesi a basso reddito. Ora lo studio  “Happy without money: Minimally monetized societies can exhibit high subjective well-being”, pubblicato in gennaio su PLOS One da un team internazionale di ricercatori guidato dall’Universitat Autònoma de Barcelona e dalla  McGill University di Montreal suggerisce che “Ci possono essere buone ragioni per mettere in discussione questa ipotesi”. Quali ragioni? La prima è non limitare l’analisi della felicità alle società figlie di un progresso sociale ed economico che spesso si è rivelato evidentemente salvifico, perché capace di emanciparci da preoccupazioni che i soldi hanno risolto, regalandoci stili di vita più agiati, ma in molte occasioni è stato ed è ancora “scorsoio”, come lo ha ben definito il poeta Andrea ZanzottoPer questo i ricercatori si sono proposti di scoprire come le persone valutano il loro benessere soggettivo nelle società in cui il denaro svolge un ruolo minimo e che di solito non vengono incluse nei sondaggi sulla felicità globale, scoprendo che “La maggior parte delle persone che vivono e lavorano in questi contesti ha livelli di felicità notevolmente elevati”. 

Per capire come la monetizzazione dell’economia influisca sul senso di benessere delle persone, i ricercatori spagnoli e canadesi hanno passato molto tempo in diverse piccole comunità di pescatori nelle Isole Salomone e in Bangladesh, due Paesi a bassissimo reddito. Per alcuni mesi, con l’aiuto di traduttori locali, hanno intervistato più volte i residenti delle aree rurali e urbane alla ricerca di informazioni su ciò che costituiva la felicità per i soggetti di studio, nonché per farsi un quadro il più possibile attendibile dei loro stati d’animo passeggeri, dei loro stili di vita, delle loro attività e anche dei livelli di reddito della famiglia. In tutto, i ricercatori hanno intervistato 678 persone, di età compresa tra i 25 e i 50 anni, con un’età media di circa 37 anni (si tratta, infatti, di Paesi con un elevata proporzione di popolazione giovane) e per l’85% di sesso maschile. Il numero elevato di uomini nello studio è una conseguenza delle norme culturali del Bangladesh che rendono difficile intervistare le donne, mentre nelle Isole Salomone le percentuali di genere non sono state significativamente differenti.  Il campione ha evidenziato livelli di felicità particolarmente elevati: “in queste comunità con i livelli di monetizzazione più bassi, i cittadini hanno riportato un grado di felicità paragonabile a quello riscontrato nei Paesi scandinavi che solitamente sono i più alti al mondo. I risultati suggeriscono, quindi, che è possibile raggiungere livelli elevati di benessere soggettivo con una monetizzazione minima”.

Certo i risultati dello studio non sono del tutto applicabili alla situazione del Bangladesh, dove le realtà sociali e gli stili di vita di uomini e donne differiscono molto e dove è emerso che “Nelle comunità in cui il denaro era più utilizzato, come nel Bangladesh urbano, i residenti riportavano livelli di felicità inferiori”. Per il coordinatore dello studio Eric Galbraith il dato importante è che “Lo studio suggerisce modi possibili per raggiungere la felicità che non sono correlati a redditi elevati e alla ricchezza materiale.

Questo è importante, perché se replichiamo questi risultati altrove e possiamo individuare i fattori che contribuiscono al benessere soggettivo, questo potrebbe aiutarci ad aggirare alcuni dei costi ambientali associati al raggiungimento del benessere sociale nelle nazioni meno sviluppate”. Secondo la principale autrice dello studio, Sara Miñarro, “Nei siti meno monetizzati abbiamo scoperto che le persone segnalano che una percentuale maggiore di tempo trascorso con la famiglia e il contatto con la natura sono le cose che più li rendono felici. Ma con l’aumento della monetizzazione, abbiamo scoperto che i fattori sociali ed economici, comunemente riconosciuti come fonti di felicità nei Paesi industrializzati, hanno svolto un ruolo più importante. Nel complesso, i nostri risultati suggeriscono che la monetizzazione, soprattutto nelle sue fasi iniziali, potrebbe effettivamente essere dannosa per la felicità”. 

È interessante notare che, mentre altre ricerche hanno scoperto che la tecnologia e l’accesso alle informazioni provenienti da culture lontane con stili di vita diversi e più agiati spesso influenzano il benessere delle persone, fornendo standard con cui le persone si confrontano e verso i quali ambiscono, questo non sembrava essere il caso di queste comunità. Per Chris Barrington-Leigh, responsabile della ricerca sul campo dello studio, “Questo lavoro si aggiunge a una crescente consapevolezza che importanti sostegni per la felicità non sono in linea di principio legati alla produzione economica. Quando le persone si sentono a proprio agio, al sicuro e libere di godersi la vita all’interno di una comunità forte, sono felici, indipendentemente dal fatto che stiano guadagnando tanto”.

Ricordo che in un Ted talk di più di dieci anni fa il premio Nobel per l’economia Daniel Kahnemanaveva provato a spiegare che  uno degli obiettivi centrali dell’”economia della felicità” non poteva che essere la riduzione della sofferenza e l’aumento del benessere psico-fisico, ancor prima che economico.

Per Kahneman ogni buon politico, ancor prima che ogni buon economista dovrebbe avere come obiettivo quello di definire gli interventi più adatti per conseguire non tanto e non solo un aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL), ma soprattutto quello della Felicità Interna Lorda (FIL) che non sempre è legata esclusivamente a fattori economici. Il riconoscimento della dimensione del benessere psico-fisico e della sua importanza e il riconoscimento della relazione non lineare tra reddito e felicità, sottolineano la necessità di rivedere al più presto il metro con cui l’economia ha da sempre presentato lo stato socio-economico di un Paese. Riusciremo prima o poi a trasformare questa “nuova” prospettiva anche in un programma politico?

 

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