La ricerca di Brian Ferguson sulle origini della guerra, che prende le mosse dall’inizio della storia dell’uomo e dei nostri parenti più prossimi, suggerisce che la guerra non fa parte della nostra evoluzione.

La guerra e tutta la sua brutalità attirano l’attenzione e rimangono impresse nella memoria. I ricordi della guerra e delle conquiste tendono a permanere e a occupare i riflettori nei documenti storici. Tuttavia, una narrazione incentrata sulla guerra dipinge un quadro incompleto della storia e della natura umana. Se, da una parte, è opinione diffusa nella comunità antropologica che la guerra sia una tendenza evolutiva e innata dell’uomo, esiste tuttavia una corrente che rifiuta questa teoria. Si sta rafforzando una tesi a favore di una storia umana che preceda totalmente la guerra e con questo sottolinea che la guerra non è innata nella natura umana, ma è invece frutto di uno sviluppo sociale e culturale che ha avuto inizio in alcune aree del mondo.

Tuttavia, una volta che il fenomeno della guerra ha inizio, esso tende a diffondersi, spiega l’antropologo storico R. Brian Ferguson, che ha trascorso più di 40 anni a studiare le origini della guerra. Ferguson, professore di antropologia alla Rutgers University, evidenzia le differenze tra guerra da un lato e violenza individuale o omicidio dall’altro. La guerra implica un conflitto armato organizzato e delle uccisioni sancite dalla società e realizzate da membri di un gruppo a danno dei membri di un altro gruppo. Secondo Ferguson, le prove attuali suggeriscono che la guerra non esiste da sempre, ma ha avuto inizio come risultato di cambiamenti sociali – con prove delle origini della guerra che appaiono in tempi molto diversi in varie località del mondo. Egli stima che i primi cenni di guerra appaiono tra il 10.000 a.C., ossia 12.000 anni fa.

“Tuttavia, in alcune aree del mondo non troviamo tracce di guerra fino a un’era molto più recente” sostiene, notando che nel sud-ovest degli Stati Uniti e nelle Grandi Pianure non ci sono segni di guerra fino a circa 2.000 anni fa.

Nel 2018 Ferguson ha scritto un articolo su Scientific American intitolato “War is not part of human nature”, in cui espone in dettaglio la sua visione della guerra. Nell’articolo riassume i punti di vista di due opposti fronti antropologici, soprannominati falchi e colombe dal defunto antropologo Keith Otterbein. I falchi sostengono che la guerra sia una predisposizione degli esseri umani e che risalga a quando avevano un antenato in comune con gli scimpanzé; le colombe, invece, sostengono che la guerra sia comparsa solo negli ultimi millenni, motivata dalle mutate condizioni sociali. Nell’articolo, Ferguson scrive:

“Gli esseri umani, sostengono [le colombe], hanno un’evidente capacità di condurre una guerra, ma il loro cervello non è cablato per identificare e uccidere gli estranei coinvolti in conflitti collettivi. Gli attacchi di gruppo, secondo questi studi, sono sorti solo quando le società di cacciatori-raccoglitori sono cresciute in dimensioni e complessità e, più tardi, con la nascita dell’agricoltura. L’archeologia, integrata dalle osservazioni delle culture di cacciatori-raccoglitori contemporanee, ci permette di identificare i tempi e, in una certa misura, le circostanze sociali che hanno portato alle origini e all’intensificazione della guerra”.

Ferguson ha studiato reperti antropologici e archeologici di tutta la storia umana antica, talvolta avventurandosi in quella più moderna. Secondo Ferguson, in vari periodi della storia umana ci sarebbe una vera e propria mancanza di prove di guerra o di violenza su larga scala. Egli ha impiegato quattro decenni a ricercare e a contestualizzare storicamente i vari punti di origine della guerra nel mondo. Ha anche contestualizzato episodi di violenza di gruppo nelle scimmie più vicine all’uomo, gli scimpanzé. La sua tesi è che la guerra non sia un comportamento innato, ereditario o inevitabile per gli esseri umani.

Ferguson ha discusso con la corrispondente di Local Peace Economy April M. Short delle sue scoperte e delle teorie sulla guerra e sulla storia umana.

April M. Short: Iniziamo con le domande grosse: gli esseri umani hanno sempre fatto la guerra, o c’è un momento specifico in cui ha avuto inizio questa tendenza? E poi, la guerra è innata nella specie umana (o forse solo negli uomini)? C’è una predisposizione evolutiva alla guerra o è un comportamento sociale, appreso, emerso insieme a particolari organizzazioni sociali?

Brian Ferguson: C’è un grande interesse su questo argomento, in particolare nell’antropologia, nell’archeologia e anche nelle scienze politiche. È stato un tema molto discusso e sono coinvolte molte questioni diverse collegate tra loro.

Parlando della tesi che supporta il fatto che la guerra sia sempre esistita, possiamo notare come essa sia stata influenzata dall’espansione dei sistemi coloniali. Soprattutto in relazione all’Europa occidentale, ma anche ad altri sistemi coloniali. Io sostengo che l’espansione coloniale abbia generalmente portato a una guerra più intensa di molti dei conflitti che abbiamo visto in tutto il mondo negli ultimi cento anni, dall’Età delle scoperte in poi. Questo non è un riflesso della natura umana, ma un riflesso delle circostanze, o della situazione contestuale.

Ma, anche prima degli inizi del colonialismo, la guerra era un fatto abbastanza comune in tutto il mondo. La guerra lascia una serie di indizi diversi, che sono indicativi della violenza nei documenti archeologici; i più importanti sono i traumi scheletrici e diversi tipi di dati relativi alle colonizzazioni. Ci sono anche altri indicatori, ma se si hanno molte informazioni su questi due elementi, allora sarà facile capire se c’è stata una guerra.

AMS: Un’altra domanda correlata: ci sono prove di un chiaro punto di inizio della guerra?

BF: Tutti vogliono sapere quando l’uomo ha iniziato a fare la guerra. È difficile dare una risposta che soddisfi la gente, perché bisogna chiedere di quale posto si sta parlando. Gli indicatori della guerra appaiono in momenti diversi in luoghi diversi. E, una volta iniziata la guerra in un luogo, a volte scompariva per un po’, anche se questo andamento non è quello più frequente. Spesso la guerra si diffondeva e cambiava nel tempo al variare dei sistemi politici. È un campo molto complicato.

Ma la domanda a cui la gente vuole davvero dare una risposta è: la guerra è innata nella natura umana? In un certo senso, la risposta è sicuramente sì, perché gli umani fanno la guerra, siamo capaci di fare la guerra, è una delle cose che gli umani fanno. Ma penso che la domanda più significativa a cui la gente sta cercando di rispondere sia un’altra: c’è qualcosa che si è evoluto negli esseri umani, o forse solo negli uomini, che li rende inclini a uccidere – o almeno a trattare con estrema violenza – le persone al di fuori del proprio gruppo. È una naturale tendenza o predisposizione umana quella che porta a uccidere gli estranei? Questa tesi è stata sostenuta da molte persone. Steven Pinker, psicologo cognitivo e autore scientifico, è uno di questi, e ce ne sono molti altri.

Altre persone hanno sostenuto qualcosa di un po’ diverso, ossia che forse non c’è alcuna tendenza innata a voler uccidere gli estranei, ma la guerra sarà comunque un risultato naturale a meno che non si attui qualche sistema per fermarla. Questo è più o meno ciò di cui parlava Thomas Hobbes nel Leviatano, giusto? Non conosceva i geni e la sua opera si colloca prima della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin. Hobbes non sosteneva che le persone avessero una predisposizione “evolutiva” a uccidere gli estranei. Diceva solo che le persone che perseguono i propri interessi, senza un qualche tipo di società civile più ampia, si rivolgeranno naturalmente alla violenza per promuovere i propri “affari” e questo porterà alla guerra. E ciò significa che la guerra è una condizione naturale della società umana. Dunque, è la guerra a essere parte della natura umana o è la natura degli uomini quando essi si uniscono in società?

Secondo una posizione diffusa, gli esseri umani hanno sempre fatto la guerra da quando sono definibili come umani. Ma quello che sostengo io da un po’ di tempo è che, se si guarda in giro per il mondo, nei documenti archeologici, nei resti più antichi non ci sono segni di guerra.

Ora, andando molto indietro nel tempo – diciamo 30.000 anni o più – non c’è quasi nulla che testimoni l’esistenza degli esseri umani. Forse c’è un utensile di pietra o qualcosa del genere, ma non si può dire sulla base delle prove se la guerra già esistesse oppure no. Quando iniziamo ad avvicinarci al presente e a osservare i reperti, non troviamo cenni di guerra per diverso tempo.

Quello che abbiamo è un modello su scala globale. In tempi diversi, in luoghi diversi del mondo, se si parte dai primi reperti archeologici e si va avanti, arriverà un momento in cui cominceranno ad apparire accenni di guerra. Questa svolta nella ricerca avviene senza un forte aumento del materiale archeologico recuperato. Non è che abbiamo iniziato ad avere buone prove archeologiche, dati buoni, e solo allora abbiamo iniziato a vedere i segni della guerra. Avevamo molto materiale anche per epoche più antiche, ma non c’erano segni di guerra. Poi gli indizi che riconducono alla guerra hanno cominciato ad apparire.

Un mio collega, Doug Fry, lavora in quest’area e ha fatto un ragionamento più ampio, un ottimo ragionamento. Abbiamo accumulato una serie di esempi grazie ad archeologi che lavorano in aree specifiche e gli archeologi stessi non sono interessati alla questione dell’inizio della guerra, fanno solo i loro scavi. In genere non sono interessati a fare paragoni su larga scala come me. Ma scopriamo che quando gli archeologi forniscono riassunti delle prove della violenza mortale tra persone, dimostrano sempre più che la guerra è iniziata in un certo periodo della storia.

AMS: Ha detto che questo è un modello adeguato ovunque si guardi, è il modello globale?

BF: Solo nelle Americhe, su cui ho lavorato ultimamente, [il modello di testimonianza della guerra che emerge in un dato periodo nei documenti] comprende la regione andina, comprende la regione di Oaxaca in Messico, comprende la costa nord-occidentale del Canada, l’Alaska nord-occidentale, i boschi orientali, le grandi pianure. Non sono sicuro che si possa dire lo stesso per la California occidentale, perché la California occidentale è anomala, dato che ha molta violenza con un’origine lontana nel tempo, quindi non sono sicuro che si possa dire che ci sia bisogno chiaramente di un tempo prima di avere prove di guerra lì. Ma è il caso di tutti questi luoghi. Ho anche osservato i modelli in Europa e nel Vicino Oriente, dove si osserva la stessa cosa: non si hanno prove di guerra e poi all’improvviso appare.

Un’altra considerazione su questo: si dice spesso che l’assenza di prove non indica assenza di guerra, quindi se non si trovano segni di violenza, ciò non significa che la guerra non sia avvenuta in quel luogo. Per ogni caso particolare, per ogni particolare scavo, questo è assolutamente vero. Ma se si parla di una regione più grande con più scavi, questa non è un’affermazione scientifica, perché non può essere contestata, non può essere falsificata. Se dici: “Anche se non si trovano prove di guerra, la guerra probabilmente c’è stata”, come si fa a confutare questa affermazione? Ma se sto dicendo che in queste diverse aree non troverai alcuna prova di guerra prima di certi periodi di tempo, perché lì non c’è stata alcuna guerra, è facile da confutare. Basta trovare le prove.

È un po’ stancante per me sentir ripetere la frase “solo perché non si trovano le prove non significa che non ci siano”, perché il quadro che vede l’inizio della guerra è così chiaro in così tanti posti. È tempo di considerare la possibilità che, in realtà, la guerra non esistesse affatto prima di una certa epoca.

AMS: Perché pensa che la teoria più popolare sia che la guerra è innata negli esseri umani, che abbiamo sempre fatto la guerra?

BF: Questa è una bella domanda ed è difficile rispondere. Se sto parlando del fatto che ci sono segni di guerra in Europa in un anno particolare, posso parlarne in termini di prove. Ma quando si arriva alla questione del perché le persone propendano per la teoria che “le persone sono innatamente bellicose” o “le persone sono innatamente buone” (il punto di vista di Rousseau contro Hobbes), entra in gioco la variabilità individuale delle opinioni. Ma penso anche che quando si guarda alla prevalenza di queste idee, esse siano legate a specifici periodi storici.

Alla fine del XIX secolo, quando le ricerche di Darwin erano all’inizio, si poneva particolare enfasi sulla lotta per la sopravvivenza. C’era anche una parte razziale, cioè l’idea che alcune razze fossero superiori ad altre e che le lotte e i conflitti tra le razze portassero quelle superiori a soggiogare quelle inferiori. Tutta la concezione del darwinismo sociale era molto diffusa e alimentava altre teorie contemporanee che rappresentavano una visione cupa dell’umanità. Freud era molto cupo. I primi psicologi erano molto pessimisti e parlavano di esseri umani dotati di istinti: uno dei più grandi istinti era l’aggressività. Bellicosità è una parola che non usiamo più molto, ma si diceva che fosse l’istinto per cui la gente voleva combattere. Quindi, l’istinto della bellicosità era la spiegazione al perché esistessero le guerre.

La prima guerra mondiale provocò una sorta di repulsione verso i conflitti. Ci fu un cambiamento nel modo in cui la gente guardava le cose. Uno studio del 1915, intitolato “La cultura e le istituzioni sociali dei popoli più semplici: un saggio comparativo“, fu davvero rivelatore. Il saggio esaminava una serie di società in tutto il mondo (utilizzando un metodo che oggi sarebbe considerato molto primitivo). Nel saggio si dice che nelle società più semplici potessero esserci delle guerre, ma che ce ne fossero di meno rispetto alle società più sviluppate. Cominciava a nascere l’idea che la guerra non facesse parte della natura umana, ma che facesse parte dello sviluppo di società più grandi e gerarchiche. Nasceva di pari passo con l’evoluzione della politica.

Il tempo trascorse e negli anni ’60 si sviluppò un dibattito intellettuale molto forte a favore del fatto che la guerra fosse innata. Diversi scrittori si sono schierati a sostegno di questa argomentazione. Uno era un etologo austriaco, uno studioso del comportamento animale di nome Konrad Lorenz. Lorenz si schierò dalla parte dei tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Era dell’opinione che, all’avvio della marcia militare, gli uomini avrebbero lasciato perdere tutto il resto e sarebbero partiti per la guerra. Scrisse un libro molto influente in tal senso, On Aggression.

Venne poi Raymond Dart, un paleobiologo australiano (anche se all’epoca non si usava questa parola) che rinvenne crani e resti primitivi. In ogni cranio che trovava, vedeva le prove di una morte violenta e di cannibalismo. Il lavoro di Dart fu recepito da uno scrittore molto dotato, Robert Ardrey, che scrisse diversi libri, tra cui African Genesis e The Territorial Imperative, che facevano parte della sua serie “Nature of a Man”. Questa serie fu la fonte principale per il film di Stanley Kubrick “2001: Odissea nello spazio”. Se avete visto l’inizio di quel film, queste proto-scimmie hanno subìto un mutamento nelle loro menti ad opera di obelischi neri provenienti dallo spazio. A causa di questo mutamento cominciano a uccidersi a vicenda: questo è l’inizio della creatività umana. Ardrey credeva fondamentalmente che questa fosse la verità sugli umani, e questa tesi divenne molto popolare.

E poi fu pubblicato il famoso libro di William Golding, “Il signore delle mosche”. Golding se ne uscì con l’idea che le persone sono delle vere e proprie canaglie. Tutti questi concetti erano parte della cultura popolare degli anni ’60, erano molto diffusi. Divennero una sorta di saggezza socialmente accettata.

La guerra del Vietnam segnò una grande differenza. Gli antropologi non si erano interessati molto allo studio della guerra prima del Vietnam. La guerra del Vietnam è durò molto tempo e le manifestazioni contro di essa erano molto frequenti nei campus universitari, luoghi abitati dagli antropologi. All’epoca ero una matricola e fu durante quel periodo che l’antropologia della guerra si sviluppò come campo d’indagine. Da quel momento si è ampliata e si sono sviluppate diverse prospettive. Alcuni sostenevano che la guerra sia sempre esistita, alcuni che fosse un istinto biologico, altri sostenevano che la guerra fosse un prodotto culturale sviluppatosi relativamente tardi. Margaret Mead [antropologa culturale] era una di quelle che dicevano: “La guerra è solo un’invenzione, non una necessità biologica”. E credo che avesse ragione. Da allora, questa tesi è stata portata avanti in modo più accademico, tramite la presentazione di prove. Ora ci stiamo lavorando da un paio di decenni e abbiamo un sacco di prove.

AMS: Nel suo articolo su Scientific American, lei sostiene che le persone a favore della guerra “innata” usano spesso l’esempio dell’aggressività degli scimpanzé. Puntano sull’antenato comune tra gli scimpanzé e gli umani per sostenere che gli umani sono innatamente bellicosi. Lei ha passato due decenni ad analizzare tutti gli episodi di violenza registrati relativi agli scimpanzé e ha scritto un libro sull’argomento, che sarà presto pubblicato. Nel suo libro, lei teorizza che gli scimpanzé non sono davvero bellicosi, ma che i loro episodi di violenza possono essere attribuiti a contesti culturali e sociali, che vedono coinvolta in gran parte la partecipazione umana. Può parlarci po’ del suo lavoro sugli scimpanzé?

BF: Non sono un primatologo. Non ho mai lavorato con gli scimpanzé. Sono un ricercatore storico, quindi leggo le osservazioni di altri studiosi e le contestualizzo. L’ho fatto con la guerra e lo sto facendo con gli scimpanzé.

Nel 1996 è uscito un libro intitolato Demonic Males: Apes and the Origins of Human Violence. Dipingeva una visione davvero cupa della natura umana, che si sarebbe evoluta per uccidere gli estranei. E la tesi si basava sul fatto che lo fanno gli scimpanzé… non perché hanno fame o entrano in un qualche tipo di competizione estrema per le risorse. È solo che sono programmati biologicamente, per evoluzione, a farlo. E continuava dicendo che, allora, lo sono anche gli umani perché gli scimpanzé e gli umani hanno ereditato questa aggressività dai loro antenati comuni tra i 13 e i 6 milioni di anni fa.

Ho iniziato a esaminare tutta la letteratura dalla fine degli anni ’90, e ho terminato il mio libro. L’ho intitolato Chimpanzees,“War,”and History. E noterete che ho messo le virgolette intorno a “guerra”. Per il libro, ho esaminato ogni sito dove si sarebbe verificata la violenza di gruppo degli scimpanzé. Ho scoperto che, mentre la gente sosterrebbe che il loro comportamento [bellicoso] di cercare estranei o sconosciuti e ucciderli sia un normale comportamento degli scimpanzé, esso si dimostra in realtà un comportamento davvero raro. Se ci si riferisce al termine guerra come a una serie di uccisioni sequenziali di membri di un altro gruppo, allora ci sono solo due guerre tra scimpanzé che hanno avuto luogo in un arco di circa nove anni. Ne parlo nell’articolo per Scientific American:

“Il mio lavoro contesta l’affermazione che gli scimpanzé maschi abbiano una tendenza innata a uccidere gli estranei, sostenendo invece che la loro violenza più estrema può essere legata a circostanze specifiche che derivano dall’interruzione della loro vita naturale a causa del contatto con gli umani. Studiare questo caso ha richiesto l’esame di tutte le uccisioni di scimpanzé riportate. Da ciò può essere tratta una semplice considerazione. L’esame rigoroso di una raccolta recente di uccisioni da 18 siti di ricerca sugli scimpanzé – per un totale di 426 anni di osservazioni sul campo – rivela che, delle 27 uccisioni intergruppo osservate o dedotte di adulti e adolescenti, 15 provengono da due sole situazioni altamente conflittuali, avvenute in due siti rispettivamente nel 1974-1977 e nel 2002-2006.

Le due situazioni ammontano a nove anni di osservazione, con un tasso di uccisione di 1,67 all’anno per quegli anni. I restanti 417 anni di osservazione hanno una media di appena 0,03 all’anno. La questione è se i casi anomali vadano spiegati come un comportamento evolutivo e adattivo o come un risultato del disturbo umano. E mentre alcuni biologi evolutivi sostengono che le uccisioni vengono spiegate come tentativi di diminuire il numero di maschi nei gruppi rivali, quegli stessi dati mostrano che sottraendo le uccisioni interne di maschi a quelle esterne di maschi si ottiene una riduzione dei maschi estranei di solo uno ogni 47 anni, meno di una volta nella vita di uno scimpanzé”.

Il succo della mia argomentazione è che la violenza mortale tra gruppi non è un modello di comportamento normale ed evolutivo degli scimpanzé, ma una risposta situazionale a una storia locale di interferenze umane, ci sono prove a supporto di questa tesi. Questo è ciò che il libro dimostra.

AMS: Ho letto che i bonobo condividono con gli umani tanto DNA quanto gli scimpanzé e non sono bellicosi o violenti, anzi, sono praticamente non violenti. Lei prende in considerazione i bonobo nel suo libro?

BF: Sì. Il mio libro ha 10 capitoli e l’ottavo capitolo riguarda i bonobo. I bonobo sono un riferimento affascinante. Sono imparentati con gli umani nella stessa misura degli scimpanzé. Tuttavia, non abbiamo mai visto un bonobo uccidere un altro bonobo (si sospetta l’uccisione di un neonato, ma molto probabilmente non è avvenuta). Un’altra differenza nei bonobo è che essi hanno occasionalmente accettato maschi adulti esterni nei loro gruppi. Ora, gli scimpanzé hanno accettato maschi adolescenti nei loro gruppi, e hanno anche temporaneamente tollerato maschi adulti estranei, quindi la differenza è sottile, si tratta di una distinzione qualitativa.

Si dice che gli scimpanzé vengano da Marte e i bonobo da Venere. Gli scimpanzé sono inclini alla violenza, aggressivi e totalmente dominati dai maschi; e i bonobo sono, come dice la loro storia, dominati dalle femmine e non così ostili, non così aggressivi… Non direi che i bonobo sono matriarcali, direi piuttosto che la loro società è equilibrata dal punto di vista dei generi, il che li rende molto diversi dagli scimpanzé.

E questo ci riporta alla questione delle predisposizioni innate, perché gli scimpanzé sono nati per uccidere? E se i bonobo non uccidono, è perché in qualche modo si sono emancipati dalla tendenza ad uccidere? Sono biologicamente evoluti in modo da non uccidere?

A parte i due comportamenti estremi che ho menzionato (accettare maschi esterni nei loro gruppi e uccidere), quasi tutto ciò che si è visto fare da uno scimpanzé, è stato visto fare anche a un bonobo. C’è molta somiglianza nelle loro. Parliamo di differenza di frequenza piuttosto che di differenze nette.

… I Bonobo non vivono nelle condizioni che penso facciano combattere gli scimpanzé, cioè una scarsità di risorse collegata all’impatto umano. I bonobo non l’hanno mai sperimentata. E allo stesso tempo, hanno qualcosa che li allontana dalla predisposizione a lottare, ovvero un’organizzazione sociale molto diversa dagli scimpanzé. Non credo che questa sia il risultato di istinti o predisposizioni innate.

Nel libro mi prendo molto tempo per spiegare che un giovane scimpanzé maschio cresca in un mondo adulto dove i maschi dominano le femmine e le femmine non passano molto tempo con altre femmine. I maschi passano un sacco di tempo con altri maschi, quindi hanno una sorta di club dei maschi e questo li porta a impegnarsi in una competizione di rango secondo il paradigma maschio contro maschio. Molto spesso un gruppo di due o tre maschi insieme salirà nella gerarchia sociale stando insieme e attaccando qualsiasi altro maschio; è così che battono l’alfa. E [essere un] alfa ha un sacco di vantaggi.

Per gli scimpanzé, ma non per i bonobo, la seconda ipotesi nel mio libro è che i maschi insolitamente aggressivi e di alto livello possano, in alcune circostanze, impegnarsi in ciò che io chiamo “uccisione dimostrativa” di individui indifesi, anche di neonati all’interno del loro gruppo, al fine di intimidire gli avversari di alto rango.

Al contrario le bonobo femmine tendono a legarsi (il che potrebbe avere a che fare con lo sfregamento dei genitali praticato dalle femmine, anche se non è del tutto chiaro) e ad attaccare un maschio se è troppo aggressivo. Se un maschio vuole salire nella gerarchia dei bonobo deve essere meno aggressivo… perché la struttura della società è basata su una scala a due sessi. Per scalare la gerarchia, un maschio deve stare vicino alla propria madre. Il miglior alleato di un maschio bonobo per avere accesso all’alimentazione, per avere accesso all’accoppiamento e per salire nella gerarchia è stare vicino a una femmina di alto rango. Il passaggio di rango si gioca con le madri, non con i fratelli. È così che un maschio bonobo si occupa dei propri affari. Ciò significa che sono attaccati alle femmine e molto spesso non sono affatto attaccati agli altri maschi.

AMS: Per me, da profana che si avvicina a questo argomento, imparare che siamo imparentati con i bonobo tanto quanto gli scimpanzé mina l’idea che la tendenza bellicosa dell’uomo sia dovuta all’antenato comune con gli scimpanzé. È interessante considerare quanto le strutture sociali possano influenzare i comportamenti, sia per gli umani che per le altre scimmie.

BF: Oggi rappresenta una grande area di ricerca, e la ricerca sul campo è cambiata per una serie di ragioni diverse. Una cosa che ha mutato la ricerca sui primati in campo e anche nei laboratori, è aver implementato il lavoro non intrusivo che studia i livelli ormonali e la genetica. I ricercatori possono ottenere i loro campioni mettendo dei teloni sotto gli alberi e aspettando che gli scimpanzé facciano pipì al mattino. E poi possono raccogliere dati sui livelli ormonali e sui geni.

C’è molto interesse in questo momento nello studio della biologia di questi primati. Ciò che si è scoperto, biologicamente parlando, è che scimpanzé e bonobo sono davvero biologicamente diversi – per genetica, ormoni e comportamento. È un’area molto interessante che trovo complessa a causa della natura di questi studi biologici e dell’interazione natura-allevamento. L’idea è che la biologia e l’ambiente si combinino e influenzino lo sviluppo di qualsiasi organismo. Questi cambiamenti possono essere epigenetici e possono avere a che fare con l’ambiente di nascita. L’oggetto dell’epigenetica [lo studio dei cambiamenti ereditabili nell’espressione genica] riguarda ciò che accade nei primi anni di vita, sebbene l’epigenetica si applichi a tutta la vita e possa essere trasmessa anche attraverso le generazioni.

Il modo in cui ho esposto la mia argomentazione a un certo punto [nel mio libro] è questa: e se fossero scambiati alla nascita? Se uno scimpanzé neonato fosse messo con i bonobo e viceversa, come diventerebbero da grandi? Uno scimpanzé cresciuto tra i bonobo crescerebbe e si comporterebbe come uno scimpanzé, con tutte le nozioni di aggressività, legame maschile e tutto il resto? Io sostengo che seguirebbero i costumi locali [dei bonobo], farebbero quello che vedono fare agli altri intorno a loro. Poi è arrivata l’epigenetica, e quando è stata applicata agli scimpanzé, sembrava adattarsi perfettamente al fatto che la prima infanzia e l’esperienza sociale di uno scimpanzé e di un bonobo alla nascita siano molto diverse.

AMS: Per riportare l’attenzione sull’uomo, come può questa idea di natura contro cultura, epigenetica e socializzazione, entrare in gioco antropologicamente e in relazione alla guerra?

BF: L’implicazione, o la lezione, per gli umani è che siamo flessibili. Penso che gli scimpanzé siano molto flessibili, non credo che abbiano schemi innati per fare cose come combattere tra loro. Penso che ci siano atteggiamenti acquisiti negli scimpanzé e nei bonobo. E penso che questo valga anche per gli esseri umani. E gli esseri umani vanno molto più lontano nella complessità della loro cultura.

Molte persone diranno che anche gli scimpanzé e i bonobo hanno culture, useranno la parola “cultura” per queste grandi scimmie. Penso che i bonobo e gli scimpanzé abbiano chiaramente tradizioni apprese. Imparano cose da fare, cose che altri nel loro gruppo fanno. Non credo che sia la stessa cosa della cultura, perché la cultura implica l’esistenza di un mezzo simbolico e linguistico. E questa cultura esiste nei nostri pensieri, nel nostro linguaggio e nei nostri discorsi. È così che la si impara. È così che si comunica e che viene trasmessa.

La cultura umana ha uno sviluppo cumulativo e per questo necessita del linguaggio e dei simboli. Si impara quello che una generazione ha fatto e poi si può fare qualcosa partendo da ciò che si è imparato. Tutto ciò che abbiamo in questo mondo è attribuibile a migliaia e migliaia di innovazioni, tutte basate sulle innovazioni precedenti. Gli scimpanzé non hanno innovazioni cumulative.

Per quanto riguarda la guerra, penso che la differenza risieda nel fatto che gli esseri umani non hanno predisposizioni innate. Alcuni antropologi sosterranno che gli esseri umani hanno una predisposizione innata a non uccidere altri esseri umani, che sono nati per non farlo e devono disimpararlo [per essere violenti]. Questo è un modo ottimistico di pensare agli esseri umani e certamente va contro l’idea che gli umani siano assassini nati per natura. Spero che sia vero, ma non ne sono convinto. Penso che potrebbe essere altrettanto facilmente il risultato del modo in cui veniamo educati nelle nostre società.

Ciò che sostengo è che non abbiamo una predisposizione né per la guerra, né per il suo contrario. Non siamo certamente predisposti ad uccidere. Non siamo predisposti a essere xenofobi. Etnocentrico è un po’ diverso, perché etnocentrico significa semplicemente, nella sua forma basilare, che il modo in cui sei stato educato è il modo in cui pensi che le cose dovrebbero essere fatte. Ogni cultura insegna qualcosa a tutti i nuovi nati. Tutti pensano: “il mio modo è il modo giusto di fare le cose”. Ma andare oltre, arrivare alla concezione che le altre persone sono inferiori, o tanto pericolose da dover essere uccise – questo non fa certamente parte della natura umana. Quando guardiamo i popoli tribali, quando gli europei sono arrivati per la prima volta, la risposta iniziale è stata quella di guardare con curiosità queste persone strane. Non è stata una reazione naturale di paura, non questa sorta di ostilità tribale di cui tutti parlano, che è una grande fesseria.

La lezione è che gli esseri umani sono dotati di grande plasticità. Possiamo essere plasmati in modi diversi. Possiamo essere plasmati per essere nazisti o per attuare la resistenza passiva. Pensare che sia qualcosa che viene dai geni, che si è evoluto e che siamo naturalmente fatti così non vi aiuterà a capire cosa sta succedendo, vi confonderà.

Alla fine del mio libro riassumo tutto il lavoro che ho fatto negli anni sulla guerra. Negli ultimi anni ho parlato della natura umana e della guerra. Prima di questo, la grande domanda per me non era: “È la natura umana a fare la guerra?” ma: “Come si spiegano le guerre che sono realmente accadute nelle società tribali e nella società moderna?” Il libro non si occupa solo di sfatare le teorie sugli scimpanzé, ma anche di questo: se hai questa idea di cultura che ho appena descritto, ti porta a fare un sacco di altre domande che sono molto più interessanti, e probabilmente più significative in termini di comprensione del perché le guerre reali sono accadute e perché la gente viene davvero uccisa.

In un articolo che ho scritto nel 2006, intitolato Tribale, Ethnic and Global Wars riassumo il mio approccio alle guerre in corso nel mondo, basato su ciò che so sulla guerra tribale. In esso, cerco di mostrare come sono avvenute le guerre, e la relazione tra l’interesse personale e i valori simbolici che le persone hanno in una società. Questo, per me, è il punto in cui ha inizio l’azione e spiega qual è la causa della guerra: è pratica, ed è anche simbolica.

AMS: In questo momento attuale della storia umana, in cui abbiamo una guerra molto più globalizzata e continua rispetto ai nostri antichi antenati e una cultura mondiale più globalizzata in generale, c’è speranza per un futuro che non sia così incline alla guerra?

BF: C’è speranza? Sì, assolutamente. Se si guarda alla lunga storia del mondo, come faccio io da antropologo, si vede che un tempo esistevano migliaia di società indipendenti su questo pianeta, che all’inizio non credo facessero la guerra. Con il tempo la guerra si è sviluppata in più luoghi del mondo e si è diffusa. Da allora, nel tempo abbiamo avuto un consolidamento delle società. Oggi ci sono meno società indipendenti nel mondo; ma bisogna essere indipendenti per andare a fare la guerra. Ho usato l’Europa come esempio per oltre 20 anni. Non ci si sarebbe mai aspettato che l’Europa si riunisse nella comunità che è ora guardando dove si stava dirigendo in passato. La guerra tra Germania, Francia, Inghilterra e altre parti d’Europa ha fatto la storia del mondo per un bel po’ di tempo. L’Europa è solo un filo conduttore, ma è un forte esempio di come le cose siano cambiate.

Nel 1988 ho scritto un articolo intitolato How Can Anthropologists Promote Peace? e una delle cose che scrivevo era che, in qualità antropologo, puoi dire che esistono altri mondi possibili là fuori. Le cose che non possiamo immaginare possibili ora potrebbero diventarlo in futuro. E in questo articolo che uscì nell’88 scrivevo che una cosa che avremmo potuto dire con certezza era che, a un certo punto, la frontiera militarizzata Est-Ovest in Europa avrebbe cessato di esistere. Era difficile immaginare che ciò accadesse, allora. Ma appena l’anno successivo è scomparsa. Quindi, non lo sappiamo. Non c’è una direzione generale verso la pace, ma penso che una parte importante sia la mobilitazione della gente, la promozione della pace, il valore della pace.

È importante che la gente veda che un mondo senza guerra è una possibilità realistica. Forse non ora, ma un mondo senza guerra è qualcosa a cui possiamo aspirare realisticamente e su cui possiamo lavorare. Se pensate che sia qualcosa che non potrà mai accadere, beh, questo fatalismo è uno dei principali elementi di sostegno che fa andare avanti la guerra. È bene uscire da questa mentalità.

Questo articolo è stato prodotto da Local Peace Economy, un progetto dell’Independent Media Institute.

Traduzione dall’inglese di Flavia Negozio. Revisione di Maria Fiorella Suozzo.


April M. Short è redattrice, giornalista e produttrice di documentari. È membro di Local Peace Economy, un progetto dell’Independent Media Institute. In precedenza, ha lavorato come caporedattrice presso AlterNet ed è pluripremiata scrittrice senior per il settimanale di Santa Cruz, in California. Il suo lavoro è stato pubblicato sul San Francisco Chronicle, In These Times, Salon e molte altre testate.