Giovedì 14 gennaio scorso, il Centro Zabut di Palermo ha organizzato il dibattito online “Beni culturali fra privatizzazione e precarizzazione”. Nel titolo l’oggetto dell’incontro: la privatizzazione massiccia del patrimonio culturale va di pari passo con il lavoro sottopagato o addirittura non pagato affatto, una realtà che sta sollevando le giuste proteste di chi, ormai da anni, vive nella situazione di precariato lavorando per imprese cosiddette “della cultura”, ma anche operando all’interno delle stesse pubbliche amministrazioni che –  sotto le voci volontariato e tirocinio formativo –  di fatto utilizzano tante e tanti giovani per colmare di volta in volta le carenze strutturali di una p.a. paralizzata dal mancato ricambio generazionale e dalla riduzione massiccia di dotazione professionale che ha cancellato, a causa del blocco del turn over, più della metà dei posti d’organico lasciati vuoti per effetto della collocazione in quiescenza del personale.

Questa miope politica dei beni culturali a livello nazionale ci viene restituita a livello regionale dai due ultimi decreti dell’assessorato dei beni culturale e dell’identità siciliana relativi al patrimonio custodito nei depositi dei musei e degli istituti della cultura della regione Sicilia, di cui abbiamo ampiamente dibattuto su queste pagine per i nefasti risvolti in merito alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali. In questi provvedimenti le prospettive occupazionali – dichiarate con toni trionfalistici –  risultano chiarissime. Si tratta perlopiù di lavoro non retribuito, poiché l’inventariazione e la catalogazione dei beni custoditi  nei depositi degli istituti culturali verrebbero svolte da “studenti universitari in discipline connesse alla conservazione di beni culturali che operano in regime di tirocinio formativo, oppure volontari delle associazioni culturali che abbiano adeguati titoli”. Si alimenta così l’illusione di una prospettiva occupazionale, infondendo nei giovani la convinzione (assai poco realistica) che attraverso i crediti formativi e gli stage di volontariato si possano maturare quei requisiti “competitivi” spendibili nel mercato del lavoro. Come dire: prima lavori gratuitamente, poi chissà…

Nel dibattito dello scorso giovedì, coordinato da Chiara Paladino del Centro Zabut, è stato fatto il punto sulla drammatica situazione del lavoro culturale precarizzato nel comparto dei beni culturali. Ad intervenire sulla questione sono stati chiamati due esponenti del mondo professionale che gira attorno al patrimonio culturale: Leonardo Bison, attivista del movimento “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” ed Enzo Miccoli del coordinamento nazionale cultura dell’USB (Unione Sindacale di Base).

In particolare, Miccoli ha tenuto ad evidenziare come lo scopo del profitto nella gestione del patrimonio culturale, gestito da Fondazioni (spesso emanazioni dirette del sistema bancario o sponsorizzate da esso) e Società cooperative, divenute vere e proprie imprese leader del settore, abbia di fatto generato l’effetto dumping sulle retribuzioni salariali – a parità di mansioni e professionalità –, sui diritti e tutele di lavoratrici e lavoratori. Oltre all’abnorme disparità di trattamento tra chi svolge attività a tempo indeterminato, inquadrato nei ruoli dell’amministrazione pubblica, e chi nell’ambito delle “imprese della cultura”, Miccoli ha rilevato come all’interno del  bacino di lavoro gestito dai privati vi sia tutta una realtà di lavoratrici e lavoratori che, sulla base dei diversi contratti – sottoscritti dalle organizzazioni confederali cosiddette “maggiormente rappresentative” (CGIL-CSL-UIL) –, «possono ritenersi più o meno avvantaggiati ovvero più o meno sfruttati dal sistema imprenditoriale capitalistico».  Da questa lettura si può acquisire la consapevolezza di come i corpi e le intelligenze, nonché l’entusiasmo di tante e tanti giovani che amano il loro lavoro, possano ridursi a mera merce acquistabile a minor prezzo-salario (se non addirittura gratuitamente) nella gestione privatistica dei beni culturali che peraltro mercifica un patrimonio comune di valore inestimabile, giacché ogni reperto o frammento contiene più di una pagina della storia dell’umanità.

Ma la privatizzazione dei beni culturali non ha refluenze solo sul patrimonio e sulle lavoratrici e sui lavoratori di settore. Come rileva Leonardo Bison, la narrazione dell’impresa sui beni culturali «è ideologica e antistorica», citando, come esempio, il paradigma narrativo sulla mercificazione di Pompei. Diversamente, spiega l’esponente di Mi Riconosci?: «Una lettura svincolala dalla logica del business, ma eminentemente culturale aprirebbe ampi margini di dibattito e di riflessione sul valore della storia e dei beni culturali materiali e immateriali che ci sono stati trasmessi dalle precedenti generazione». Le parole di Bison dicono molto di questo nuovo movimento che rivendica non solo il giusto riconoscimento del lavoro e della professionalità delle e dei giovani che operano in regime di precariato all’interno dei beni culturali, ma ha soprattutto a cuore il futuro del patrimonio culturale inteso come bene comune della collettività.

Nel 2019, prima della pandemia, il movimento Mi Riconosci? ha condotto un’indagine estesa su tutto il territorio italiano finalizzata a delineare un quadro quanto più attendibile del lavoro sottopagato, precarizzato o non riconosciuto nell’ambito beni culturali. «Tantissime le risposte che sono giunte da parte di operatrici e operatori del settore delle diverse regioni e che hanno restituito uno spaccato insostenibile in termini di salari, diritti e tutele». All’appello, conclude con rammarico Bison, «non ha risposto la Sicilia».

C’è da chiedersi, a partire da questo ultima affermazione di Bison, se per caso il governo regionale dell’Isola, che ha competenza esclusiva sui beni culturali in quanto regione ad autonomia speciale, abbia adottato strategie diverse da quelle nazionali relative al reclutamento di lavoratrici e lavoratori nei beni culturali e che noi di Pressenza faziosamente non abbiamo voluto comprendere cosa sia stato decretato nell’atto dell’assessorato competente relativamente al patrimonio custodito nei depositi dei musei e degli istituti della cultura della regione siciliana, pomposamente ribattezzato “Carta di Catania”.

In sostanza sembrerebbe quasi che la situazione relativa alla fruizione del patrimonio culturale siciliano goda di ottima salute. Stando alle dichiarazioni di qualche giorno fa della presidente de “Le vie dei Tesori”, il festival realizzato da metà settembre ai primi di novembre che ha coinvolto 15 centri siciliani può vantare un indice di gradimento del 91 per cento e una ricaduta economica sul territorio di oltre 2 milioni e 330mila euro. Peccato, però, che a sollevare il roseo velo di queste dichiarazioni intervenga l’assessore regionale all’istruzione che, nell’intento di mettere in luce il proprio impegno, ha tenuto ad evidenziare come il felice esito dell’iniziativa abbia visto anche il contribuito dei tanti studenti universitari «che hanno potuto – in questo modo – compiere un’importante esperienza formativa», augurandosi che tale esperienza «possa presto ripetersi». D’altra parte, sappiamo bene che la manifestazione del “Le vie dei Tesori”, già dall’esordio nel 2006, ha potuto contare sulla mobilitazione del volontariato associazionistico e sul contributo della scuola-lavoro.

Ed eccoci al punto di partenza del lavoro culturale gratuito o, nella migliore delle ipotesi, mal retribuito. Tuttavia il resoconto de “Le vie dei Tesori” ci restituisce una verità che nessuno di noi si sente di sconfessare: il 91 per cento di gradimento da parte dei siciliani (nonostante il coronavirus) ci dà la percezione della curiosità che anima il vasto pubblico relativamente al patrimonio culturale. A partire da questo indicatore, i governi dovrebbero ripensare la politica dei beni culturali andando oltre la performance economicistica dei processi di turistificazione delle città, incominciando con la restituzione della dignità professionale necessaria al bellissimo lavoro che si svolge all’interno dei siti e degli istituti culturali.

Nell’anno che si è appena aperto e che si prepara a celebrare Dante, morto nel 1321, con tutto quello che comporterà in termini di mercificazione della vita, del pensiero e dell’opera del grande poeta, il modo più autentico per ricordarlo sarebbe di dare nuovo senso alle parole che da secoli ci rivolge per bocca di Ulisse: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

L’umanità che dal 2020 sta ancora attraversando l’inferno pandemico, può mediante la conoscenza, che è la base della civiltà, e la cooperazione sociale tornare “a riveder le stelle”.

kappagi

articoli correlati

Troppi beni culturali da gestire? Affidiamoli al mercato

Depositi culturali: materiali di studio o avanzi di magazzino ?

 /videos/