Milano, 6 Dicembre. Piazza Castello, alle due del pomeriggio ci sono già parecchi cartelli, bandiere, qualche striscione. La comunità del Tigray (uno degli stati della confederazione etiope) si è riunita oggi per dire “Stop alla guerra nel Tigray. Comunità internazionale sveglia, quello che sta avvenendo in quella regione è un massacro.” Il governo Etiope dal 4 novembre ha avviato una guerra che doveva essere lampo e che invece nessuno sa quando finirà, con il rischio che si allarghi ad altri stati confinanti.

Circa 150 persone gridano la loro indignazione, gli interventi si susseguono, oggi non c’è musica. Gli interventi iniziano piano, a fatica, megafoni che fanno cilecca, un gruppo di uomini che, nel prato poco lontano, cercano di far partire un generatore. “L’abbiamo comprato apposta” mi spiegano. E pioggia, pioggia.

Ma sono delle donne che prendono il megafono con forza e vi urlano dentro tutta la loro angoscia: non sanno cosa sta succedendo alla loro gente, ai loro familiari, ai loro cari. Un’intera regione chiusa, sei milioni di persone isolate, non vi sono comunicazioni possibili, tutto oscurato. Le notizie che riportano forse sono ingigantite, ma chi puo’ saperlo? La capitale del Tigray Macallè è occupata? Si? No? Chi parla di bombardamenti sui civili, chi di fosse comuni, di gente colpita coi machete. Una campagna contro la gente del Tigray pare stia avvenendo in tutta l’Etiopia: discriminazioni, sollevamenti da incarichi, o peggio, per le persone di origine tigrina. Interviene anche qualche cittadino etiope non tigrino, e qualche eritreo, per dire “basta” a una guerra che come tutte le guerre vede fondamentalmente la popolazione soffrire e morire. E da quelle parti ci sono stati decenni di guerra, i vecchi sanno bene cosa vuol dire.

Quando colgono che sono un “giornalista” vengono in diversi a ringraziarmi, a raccontarmi. Raccolgo il grido disperato di questa gente che ha come obiettivo farsi sentire, chiedere aiuto, solidarietà. Non vi sono giornalisti, tanto meno televisioni. Qualcuno cerca anche di spiegarmi che la situazione è comunque più complessa di come appare, ma è indubbio che il silenzio, intorno a questa vicenda, aiuta solo il più forte.

Dopo un’ora e mezza finalmente parte il generatore e così il microfono e l’amplificazione. Vanno avanti, smette di piovere e poi riprende, restano là, alternano interventi e slogan, come se le loro urla potessero attraversare le possenti mura del castello Sforzesco, attraversare il parco Sempione e arrivare fino alle orecchie della RAI.

Fradicio, congelato, dopo più di due ore li saluto, loro vanno avanti, ancora qualcuno mi rincorre per dirmi che nessuno dice che vi sono anche almeno 40 cittadini italiani, anche minori, in quella zona chiusa, blindata. Il governo italiano, l’Italia sta facendo troppo poco. Mi dicono che in Francia, in Inghilterra la notizia esce tra le prime notizie, e qui? Pochissimo. Il governo etiope è convinto di risolvere la questione in poco tempo. Il 24 novembre il vicepresidente etiope ha incontrato Giuseppe Conte. Cito le agenzie: “Secondo quanto riportato dall’ambasciata, il premier Conte ha espresso l’auspicio che l’operazione venga condotta ‘in modo responsabile e attento’”. Molto poco.

Anni fa (ricordate l’Iraq?) si era evitato di parlare di “guerra lampo”, troppe implicazioni storiche, si era parlato di “operazione di polizia internazionale”. La solita schifezza, dove chi vende armi si frega le mani.

Ogni giorno che la comunità internazionale lascia passare è tempo perduto per evitare morti, distruzione, sofferenze e un’escalation, che è dietro l’angolo.

Guardo ancora i volti, forse non era solo pioggia, erano anche lacrime.