Quando si accavallano troppi eventi, ci si sente mancare il fiato e diventa complesso provare a fare il punto della situazione. E’ quello che accade oggi se si prova a parlare di Calabria. La regione, un po’ per la sua marginalità economica e un po’ per il suo posizionamento geografico, sembra sempre essere la periferia d’Italia e d’Europa, eppure negli ultimi giorni non si fa altro che parlare di Calabria e della tragica telenovela (che potremmo chiamare “Il Commissario”), che la vede protagonista assieme ai suoi commissari, o quasi-commissari, alla sanità.

Qual è la trama di questa soap made in Calabria? Nell’anno dell’apocalisse, il 2020, una pandemia si abbatté sulla Terra e mai come in quel momento era necessario poter contare su un sistema sanitario efficiente. Ma la Calabria un sistema sanitario efficiente non lo aveva e, anzi, la sua sanità era commissariata dal lontano 2010 e sottoposta ad un piano di rientro. Nel 2010 al governo centrale sedeva ancora Berlusconi e in Calabria, dopo la Presidenza in mano al centro-sinistra di Loiero, arrivò il centro-destra di Scopelliti. Il nuovo Presidente fu nominato dal Governo anche commissario alla Sanità, “privilegio” che non sarà concesso poi a nessuno dei suoi successori, e dovette occuparsi di ridimensionare la rete ospedaliera calabrese. Che significa? Chiudere o ridurre le funzioni degli ospedali presenti per tagliare le spese e aumentare la loro efficienza. Quell’inefficienza derivava però da un male atavico: le lunghe mani della ndrangheta che strozzavano la sanità. Chi vive in questa regione sa del rapporto tossico tra politica e ndrangheta che avvelena il sistema sanitario (e non solo). Basti ricordare l’operazione “Onorata sanità” del 2008 in cui 18 persone, tra cui il consigliere regionale Domenico Crea ed esponenti della cosca dei Morabito, dei Zavettieri e dei Cordì, furono tenute sotto custodia cautelare per associazione mafiosa, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale, truffa, omissione di soccorso, soppressione e distruzione di atti veri. O basti pensare che dal 1989 in Calabria ben cinque aziende sanitarie sono state commissariate per ndrangheta.

Quando, nella conferenza stampa del 4 novembre scorso, il Presidente Conte annunciò che la Calabria sarebbe diventata zona rossa si scoperchiò un vaso di pandora. La Calabria non fu proclamata zona ad alto rischio a causa del numero di contagi, ma per la mancanza di posti letto nelle terapie intensive e dalle scarsità di personale e materiale sanitario. La Calabria non era zona rossa per il coronavirus, ma per la mala gestione della sua sanità e parte della popolazione, come era successo in altre città italiane, è insorta.

Non è semplice disegnare l’identikit di piazze eterogenee e diverse tra loro, sicuramente in Calabria il senso di ingiustizia e abbandono per non poter contare su un sistema sanitario è il filo rosso che lega i manifestanti delle proteste sorte in varie province. Noi qui cercheremo di capire le ragioni delle piazze cosentine attraverso una delle sue protagoniste: Jessica Cosenza. Jessica è una compagna di due collettivi particolarmente attivi in città: “Prendo casa”, movimento popolare per il diritto all’abitare, e “Fem.in Cosentine in lotta”, collettivo femminista molto attivo per la tutela della salute delle donne.

«Vogliamo un piano straordinario per la sanità e per noi non vuol dire mandare commissari, uomini soli al comando, per risparmiare e per pagare i debiti precedenti. Vuol dire riaprire gli ospedali che sono stati chiusi. Con pochissima spesa di soldi si potrebbero usare queste strutture invece che fare ospedali da campo quindi rivedere le chiusure legate ai piani di rientro potrebbe essere una parte del piano straordinario. Chiediamo la fine dei commissariamento ma non nel senso di affidare la sanità a chi c’è adesso in regine. Fine dei commissariamenti per noi non significa fine dei commissariamenti in sé, ma dei commissariamenti per il rientro. A noi non interessa che ci mandiate commissari che devono risparmiare e quindi chiudono strutture o diminuiscono servizi perché devono appianare un debito, a noi dovete mandare dei commissari per rifondare la sanità. Che il commissario possa essere Gino Strada per noi è garanzia di rettitudine, dopodiché un solo uomo o una sola donna al comando non sono la soluzione ai problemi. Serve un equipe che sappia quale sia la realtà necessità e bisogno di questa regione. Sul fatto che ci debbano mandare i commissari del nord a controllarci o qualcuno del sud che sia andato al nord per fare fortuna altrove, come dice Gratteri, a noi questa cosa un po’ sta sul culo perché è come dire che chi è meridionale è già di per sé criminale solo perché del sud. Poi dire “mandate uno di noi che però ha fatto fortuna al nord” vuol dire che già sei meridionale e quindi sei criminale per DNA però se sei andato al nord magari t’hanno mparatu ancua cosa – magari ti hanno insegnato qualcosa».

Cosenza è solo una delle tante realtà che si sono mobilitate, importanti sono anche altri esempi come quello di Cariati in cui si chiede di riattivare l’ex ospedale, vittima dei ridimensionamenti degli anni precedenti, per decongestionare lo spoke di Corigliano-Rossano (comune a circa 40 km) in cui è ospitato il Polo per l’assistenza ai pazienti Covid.

Ciò che fa rabbia a chi vive in Calabria è che la voragine nei conti della sanità pubblica non sia stata prodotta dai cittadini calabresi che non pagavano le tasse, ma da una classe politica spesso collusa con la ndrangheta e a conferma di ciò giunge l’arresto del forzista Domenico Tallini, Presidente del consiglio regionale. Ai tempi della giunta Scopelliti, Tallini era assessore regionale al personale e quali sono le accuse a suo carico? Voto di scambio: si sospetta che Tallini sia intervenuto per velocizzare l’iter di costituzione del Consorzio Farma Italia e della società Framaeko srl, attive nel settore della commercializzazione dei farmaci da banco, per ottenere l’appoggio della famiglia ndranghestista Aracri nelle elezioni del 2014.

Una realtà difficile quella calabrese, senza ombra di dubbio, ma è importante ricordare che oltre a politici collusi e ndranghetisti esiste una società civile sana che cerca di divincolarsi da questo cappio. Nel solo territorio di Cosenza sono state molte negli anni le manifestazioni e le azioni di protesta per tutelare la salute come bene comune e non come merce di scambio, come molte sono state le iniziative per sopperire alle carenze del sistema sanitario regionale, per esempio con la costituzione di un ambulatorio medico popolare grazie a “Rete Centro Storico”, uno dei collettivi presenti in città.

Jessica ricorda però a tutti un aspetto significativo: «noi siamo cittadini, noi possiamo proporre soluzioni minime ma poi è chi è stato eletto e dovrebbe avere delle competenze a provvedere». L’emergenza da coronavirus ha insomma reso palese il fatto che l’efficienza non si promuove limitandosi a gestire un bene comune secondo logiche aziendali. Non sarà dunque lo stato minimo, ossia quel particolare tipo di stato che non interviene direttamente in ambito sociale e economico esternalizzando e appaltando queste funzioni ad attori privati, a rispondere alle esigenze delle classi popolari. E’ necessario invece ripensare allo stato sociale che tutela i diritti dei cittadini che, nel caso del diritto alla salute. significa attivare un sistema sanitario totalmente pubblico e libero dalle logiche di mercato.

Francesca Pignataro

PerUnAltraCittà