Non è neppure necessario conoscere i dettagli del nuovo accordo fra ArcelorMittal e Governo italiano per dire già da ora che sarà un flop dal punto di vista della tutela dei posti di lavoro, della salute e dell’ambiente. Questo accordo nasce infatti solo dall’esigenza di mettere un rattoppo alla situazione disastrosa dello stabilimento, rinviandone di qualche mese il collasso definitivo. Vediamo le dieci ragioni per cui da questo accordo non vi sarà né rilancio né risanamento ambientale.

1) PIANO AMBIENTALE. Verranno concesse ulteriori deroghe e proroghe al piano ambientale, consentendo di spostare più in là nel tempo la messa a norma degli impianti.

2) CEDU. Le deroghe e le proroghe al piano ambientale renderanno l’Italia ulteriormente inadempiente rispetto alla sentenza di condanna della CEDU (Corte Europea dei Diritti Umani), sancendo uno stato di mancanza di tutela dei diritti umani fondamentali per i cittadini di Taranto.

3) BILANCI SEPARATI. L’accordo sarà firmato da ArcelorMittal Italia mentre la multinazionale ArcelorMittal escluderà ogni ricaduta di eventuali perdite di esercizio dal bilancio della multinazionale stessa; in tal modo la multinazionale non subirà danni economici che invece ricadranno unicamente sullo Stato italiano, e anche eventuali richieste connesse all’applicazione del principio “chi inquina paga” non ricadranno sulla multinazionale.

4) EQUILIBRIO FINANZIARIO. ArcelorMittal firma questo accordo con un chiaro avvertimento allo Stato italiano: la cassa integrazione (ossia lo Stato) deve pagare la manodopera eccedente e quindi l’equilibrio finanziario ricade sull’intervento pubblico, in particolare in tempo di Covid.

5) AFO5. Non vi sarà nessun impegno di ArcelorMittal a portare la produzione a 8 milioni di tonnellate e non vi sarà un aumento degli investimenti nell’AFO5, il grande altoforno spento.

6) BREAK EVEN POINT. La situazione del mercato internazionale dell’acciaio è difficilissima e ArcelorMittal si sta ritirando dalle nazioni e dagli impianti che creano problemi, quindi l’Italia viene considerata un investimento sbagliato dato che il “break even point” di 8 milioni di tonnellate/anno di acciaio non è raggiungibile; se non si raggiunge il “break even point” i ricavi sono inferiori ai costi ed è questo il problema cruciale dello stabilimento di Taranto che è competitivo solo raggiungendo un elevato “break even point”, irraggiungibile in condizioni di crisi di mercato.

7) ECCESSO DI CAPACITA’ PRODUTTIVA. Se la produzione venisse portata a 8 milioni di tonnellate/anno di acciaio con un investimento dello Stato, più della metà del prodotto rimarrebbe invenduto, dato che nel 2020 si produrranno meno di 4 milioni di tonnellate/anno per via di una strutturale crisi di mercato dovuta al Covid, che si assomma ad uno strutturale eccesso di capacità produttiva della siderurgia mondiale.

8) LA CINA E IL COVID. La Cina ha ormai conquistato una posizione di supremazia indiscussa nell’ambito siderurgico e non è pensabile che lo stabilimento di Taranto sia in grado riconquistare le fette di mercato perse e che la Cina ha ormai stabilmente occupato avendo affrontato l’emergenza covid con livelli di efficienza non paragonabili a quelli dell’Europa o degli Stati Uniti.

9) OPERAI SENZA PIANO B. Ormai cinquemila lavoratori ILVA sono fuori della produzione e lo rimarranno nei prossimi anni, e sarà un dato strutturale che creerà tensioni, spaccature e malcontento nel mondo operaio che, testardamente, non ha prospettato un piano B come scialuppa di salvataggio in questa difficile situazione.

10) GLI 8 MILIONI DI T/A. Nei prossimi anni non ci sarà futuro neppure per quelli che resteranno sulla produzione dato che non si raggiungerà il livello produttivo di 8 milioni di tonnellate/anno di acciaio; lo stabilimento non sarà competitivo e sarà gradualmente messo ai margini del mercato, con perdite di esercizio cumulative crescenti. E inoltre va considerato che un piano ambientale con una produzione di 8 milioni di tonnellate/anno di acciaio non supererebbe il vaglio di una valutazione predittiva del danno sanitario.

L’Ilva pertanto è in un cul-de-sac. E lo sono anche i lavoratori, i loro sindacati e il governo, che tenterà di rasserenare gli animi di fronte a quella che si prospetta come una “mission impossible”. 

Chi avrà fiducia crederà nell’accordo, ma sarà un semplice atto di fede.

Il mercato globale travolgerà il nuovo accordo e i soggetti che lo firmano. 

La vecchia ILVA è già fallita e la nuova ILVA ha perdite talmente ingenti che si replicano le stesse dinamiche del fallimento connesse ad un mercato che ha già espulso da tempo la produzione del capoluogo jonico come parte della sovracapacità produttiva mondiale da ridimensionare.

Dai dieci punti sopra elencati emerge che quello che firma il governo è un accordo formale per evitare le tensioni sociali di una fuga di ArcelorMittal dall’Italia. Ma quello che va compreso è che, a ben vedere, la fuga di Mittal c’è già stata. E’ rimasta solo la Morselli a rappresentare una multinazionale riluttante e defilata che si è da tempo sganciata dall’Italia, da quando ha visto che le perdite mensili arrivavano anche a superare i 100 milioni di euro al mese. Il Covid sarà usato come paravento per intervenire con un ammortizzatore sociale verso operai che mai più torneranno a lavorare nell’ILVA. Questa è la verità.

Sarà firmato un accordo per camuffare un sostanziale aiuto di Stato a un’azienda decotta e priva di prospettive redditizie. Il governo continuerà a pagare la cassa integrazione per una vasta area della forza lavoro e farà qualche investimento per dare l’impressione di mettere a norma gli impianti, assicurando i pagamenti per i prossimi mesi, senza tuttavia garantire i profitti, che non arriveranno mai da qui ai prossimi anni. In questa complessa situazione non è difficile prevedere che l’ombra della Corte dei Conti e della Commissione Europea calerà sull’ILVA, dato che ArcelorMittal non avrà alcuna voglia di sborsare denaro per tappare le perdite. Pagheremo i lavoratori con le nostre tasse. Sarà interessante vedere chi pagherà il fitto degli impianti. E cosa accadrà quando questo tipo di economia assistita e malamente pilotata, simile all’economia dell’ex Unione Sovietica, si scontrerà con un mercato riottoso e non governabile dai decreti del governo.

Quando le perdite di esercizio cumulate diventeranno insostenibili e si arriverà ad un nuovo  fallimento, rivedremo le stesse scene di queste ore, con trattative affannose per riprendere il controllo. Ma nulla riporterà l’ILVA in pareggio e ad essere capace di pagare i suoi lavoratori con i ricavi della produzione, e men che meno l’ILVA sarà in grado fare profitti e di accantonare il necessario per ammodernare gli impianti. Se qualcuno ci riuscirà potrà ambire al Premio Nobel per l’Economia. Non è il caso di Patuanelli che avrà invece il difficile compito di guardare negli occhi i rappresentanti sindacali per provare a convincerli che i lavoratori avranno un futuro, perso ormai da tempo.

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