Riprendo dopo un po’ di mesi il mio monitoraggio di cittadinanza del processo di Locri contro Mimmo Lucano e Riace, che continua ad essere sostanzialmente ignorato dalla stampa. Dall’ultimo mio articolo di inizio luglio, ci sono state 4 udienze, due a luglio e due a settembre. Darò come al solito qualche rapida informazione sul contenuto delle singole udienze. Ma vorrei anche introdurre, come già nell’articolo precedente, alcuni passaggi avvenuti nel frattempo al di fuori del processo, e che pure sono suscettibili di influenzarne il corso, se non dal punto di vista strettamente giudiziario, almeno dal punto di vista della pubblica opinione. Infine, vorrei cogliere questo momento particolare dell’iter dibattimentale, in cui si è finalmente conclusa l’illustrazione dell’accusa e dovrebbero ormai parlare le difese, per tentare una valutazione complessiva delle strategie messe in atto dalla Procura di Locri nel tentativo di sostanziare la richiesta di un giudizio penale su Lucano ed altri attori dell’accoglienza a Riace.

Nell’udienza del 6 luglio, il colonnello Sportelli ha ripreso il tema del Riace in festival, la manifestazione culturale estiva organizzata dalla Rete dei Comuni Solidali, in particolare, l’edizione del 2017, in pieno periodo di intercettazioni da parte della Guardia di Finanza e quella del 2015 per dei riferimenti presenti in alcune intercettazioni raccolte due anni più tardi (che in realtà non si riferiscono al Festival, ma ad altri eventi culturali organizzati dal Comune in occasione della festa dei santi patroni). I reati ipotizzati sono: distrazione fondi, falso ideologico e favoreggiamento personale. Del Festival Sportelli aveva già parlato, affermando che sarebbe stato finanziato con quelle “economie” realizzate sui fondi dell’accoglienza che la Procura tratta tutte indistintamente come distrazione di fondi. Questa volta vi ritorna su per parlare delle case in cui venivano ospitati quelli che Sportelli definisce come “gli ospiti del Festival”, oppure “gli invitati di Lucano”, o addirittura “gli amici di Lucano”. Uno slittamento di linguaggio che è indicativo del carattere approssimativo delle accuse, ma anche del tentativo di insinuare continuamente che possa esserci un interesse privato di Lucano, sebbene l’accusa non sia riuscita a dimostrarlo.

Le case, dunque: emergerebbe dalle intercettazioni che nel 2017 Lucano avrebbe sistemato le persone arrivate a Riace per il Festival non solo nelle case del turismo solidale, ma anche in alcune case destinate ai progetti Sprar e Cas. Va detto che il Festival dura solo qualche giorno e le case in questione erano comunque vuote, ma l’ospitalità di persone estranee ai progetti non sarebbe comunque prevista dalle Linee Guida dello Sprar e avrebbe pesato sui fondi Sprar in termini di consumo di acqua e elettricità. E però, mentre parla delle case, Sportelli fa balenare di nuovo l’idea che il Festival stesso, gli artisti, il palco, ecc., tutto fosse pagato da Lucano e/o dalle associazioni dell’accoglienza a Riace, quindi con fondi pubblici. E questo sebbene sia semplice verificare che il Festival si è sempre finanziato in modo autonomo, su fondi di ReCoSol e della Tavola valdese.

Anche nell’udienza del 22 luglio è tornato un altro grande tema: il teste della Procura, Leone Vadalà, maresciallo della Polizia giudiziaria di Locri, ha deposto sul presunto carattere fraudolento della raccolta dei rifiuti svolta a Riace da due cooperative sociali. Ha a lungo argomentato su quelle cooperative (che non erano iscritte ai registri e non avevano i requisiti), sull’affidamento diretto del servizio, sulla mancanza della gara e della pubblicità, sostenendo che Lucano avrebbe avuto motivi personali per affidare loro il servizio.

L’ipotesi di reato è: turbata libertà di scelta del contraente, turbata libertà degli incanti, abuso d’ufficio. Sembra di sognare, siamo ben oltre il déjà vu. Se ricordate, quando nell’ottobre 2018 il Gip di Locri aveva imposto a Lucano le misure cautelari (arresto domiciliare, poi tramutato in esilio), aveva giudicato inconsistenti la gran parte delle accuse, accogliendone solo due: i matrimoni irregolari e l’assegnazione del servizio di raccolta rifiuti, per l’appunto. Nel febbraio 2019, però, era intervenuta la Corte di Cassazione che aveva demolito le argomentazioni della Procura sul servizio di raccolta rifiuti, sostenendo che non c’erano “indizi di comportamenti fraudolenti”. Anzi, tutto era stato regolare, le decisioni erano state prese in modo collegiale e supportate dai pareri di regolarità sotto il profilo tecnico e contabile, il carattere di pubblica notorietà dei provvedimenti era garantito dall’affissione all’albo comunale e le somme previste per il servizio erano al di sotto della soglia stabilita dall’UE. Aveva anche annullato la pretesa della Procura di fondare il reato sulla mancata iscrizione delle due cooperative al registro regionale, per il semplice fatto che tale registro regionale non era in realtà esistito fino al 2016, cosicché nel periodo in esame (2011-2015) non si poteva pretendere l’iscrizione delle cooperative a quell’albo. La Cassazione aveva fatto anche di più, affermando che i comportamenti che la Procura trovava penalmente rilevanti nella vicenda dell’affidamento del servizio di raccolta rifiuti erano “solo assertivamente ipotizzati”.

Ci si chiede allora come sia possibile che un anno e mezzo dopo quella sentenza, ci ritroviamo un’udienza interamente dedicata ai reati connessi all’affidamento del servizio di raccolta rifiuti. E che alla base dell’argomentazione dell’accusa ci sia quella stessa Informativa della Guardia di Finanza su cui si è nel frattempo abbattuta la sentenza della Cassazione. Certo, sappiamo che i tempi della giustizia sono lenti e che i meccanismi della decisione giudiziaria sono molteplici, che una cosa è il giudizio sulle misure cautelari, altra cosa il dibattimento processuale. Eppure dal nostro punto di vista di semplici osservatori, è sconcertante vedere che gli stessi fatti che la Cassazione ha dichiarato leciti possono essere riproposti tal quale come reati penali, come se una Corte addirittura superiore non avesse già bollato quelle interpretazioni della Procura come “solo assertivamente ipotizzate”. Quante volte devono essere giudicati i comportamenti di un imputato? E perché un giudizio negativo sulle interpretazioni proposte dall’accusa non produce effetti? Questa apparente impermeabilità rafforza il sospetto che abbiamo già avanzato, che i comportamenti, gli atti, non siano il vero centro dell’esame, ma piuttosto la loro interpretazione, la quale è orientata da idee.

La ripresa del processo dopo la pausa estiva si è aperta con l’udienza del 14 settembre, dedicata al contro-esame da parte degli avvocati della difesa: contro-esame di Sportelli sul reato di peculato e di Vadalà sulla raccolta di rifiuti. Gli avvocati chiedono ai testi dell’accusa chiarimenti su punti di dettaglio in relazione alle posizioni dei loro assistiti, fanno emergere contraddizioni e carenze nell’esposizione della Procura e annunciano che tutti questi punti saranno poi ripresi nelle presentazioni difensive. Per questo penso sia meglio aspettare di ascoltare gli argomenti della difesa, invece di elencare adesso le questioni di dettaglio affrontate nel contro-esame.

L’udienza del 15 settembre, invece, è stata un’udienza importante, perché Sportelli ha affrontato due capi d’accusa pesanti, due macigni che la Procura scaglia contro l’esperienza stessa di Riace. Il primo è il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina attraverso il tentato matrimonio, mai realizzato, fra una ex-rifugiata ormai cittadina italiana e un uomo etiope; Sportelli riferisce anche di altri matrimoni che sarebbero stati tentati fra riacesi e profughe nigeriane, che però non sono oggetto di ipotesi di reato. Il secondo è il reato di associazione a delinquere, che nella visione dell’accusa costituirebbe il quadro d’insieme in cui s’inseriscono i reati illustrati nel corso delle udienze. I soggetti che avrebbero partecipato al reato associativo vengono ridotti ai soli Lucano, Capone, Ierinò e Tornese, con Lucano in posizione apicale di capo dell’associazione. Questi si sarebbero associati allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati, che qui prendono una consistenza diversa, quella del progetto criminale. Per usare le parole di Sportelli, “per fini diversi, di lucro o elettorali, si è voluto portare avanti un progetto, che era il modello Riace, nato in maniera egregia, che però pian piano è andato alla deriva”. Una deriva che non sarebbe, però, imputabile ad errori, anomalie, o incapacità di gestione di numeri cresciuti a dismisura, ma a volontà collettiva di un gruppo di persone, con Lucano in testa, che insieme si sarebbero organizzate per realizzare truffe, falsi, abusi e via dicendo. È in questo quadro che l’accusa legge l’esperienza di Riace come un piano preordinato per distrarre fondi e truffare lo Stato; certo, riconosce Sportelli, i rifugiati erano trattati bene, ma all’interno di un disegno criminale.

Con l’illustrazione del capo di accusa di associazione a delinquere si esaurisce la lunga deposizione del colonnello Sportelli, durata un intero anno. Parallelamente però, anche in questi mesi estivi è successo altro, fuori dal processo, certo, eppure è difficile immaginare che non risuoni in qualche modo anche in quell’aula, perché getta un po’ di luce sulle tante ombre che vi emergono. Il 7 luglio il Tribunale del Riesame di RC ha respinto il ricorso della Procura di Locri contro l’annullamento delle misure cautelari riguardanti Lucano, che ancora oggi vorrebbe rimettere ai domiciliari; nella sentenza, il Tribunale ha sostenuto che non c’è prova del reato associativo, né del perseguimento da parte di Lucano di un vantaggio patrimoniale. A fine agosto, poi, è arrivata un’altra notizia eclatante: Salvatore del Giglio, funzionario della Prefettura di RC, autore di una relazione che costò a Riace l’avvio dell’indagine e la chiusura dei progetti d’accoglienza, che aveva testimoniato in Tribunale nel luglio 2019, è indagato per falso ideologico in atti pubblici. Avrebbe falsificato una relazione analoga sul Centro di accoglienza “Villa Cristina” del Comune di Varapodio, gestito dal sindaco Fazzolari di Fratelli d’Italia, omettendo di indicare le criticità riscontrate in quel Centro, proprio quelle criticità che aveva invece rilevato nell’operato di Lucano a Riace: chiamata diretta degli enti gestori, affidamento dei servizi senza gara, assunzione fiduciaria degli operatori, ecc. Che credibilità può avere un funzionario infedele che falsifica le relazioni delle ispezioni?

Fin qui le “notizie” di questi mesi. Il processo, come abbiamo visto, è in un momento di transizione: l’illustrazione dell’accusa si è finalmente conclusa, resta solo qualche addentellato di testimonianze tecniche su punti specifici e stiamo finalmente per assistere alla presa di parola delle difese. Ne approfitterei per tentare di portare a sintesi le impressioni che abbiamo tratto dal processo in tutti questi mesi di monitoraggio, e le osservazioni che di volta in volta abbiamo proposto.

Amministrativo o penale? Sin dall’inizio il processo è apparso travagliato da una sorta di indistinzione fra un piano amministrativo, da una parte e uno penale dall’altra, con un continuo scivolamento fra i due piani. Accuse di inadempienze, rendicontazione difettosa, database non accurato, comportamenti anomali rispetto alle Linee Guida dei programmi di accoglienza e integrazione, rinviano tutte al piano amministrativo. Altra questione invece è un processo penale avviato sulla base di reati anche molto gravi.

Questa confusione è tanto più critica, in quanto l’accoglienza è materia amministrata di concerto con gli Enti Locali, cui lo Stato affida rifugiati e richiedenti asilo; il che presuppone, come ricorda la sentenza del Consiglio di Stato di cui abbiamo detto nel capitolo precedente, un rapporto di lealtà e reciproca fiducia ed esclude comportamenti ostili o demolitori da parte dello Stato. Quella sentenza non ha solo dichiarato illegittima la chiusura dello Sprar di Riace e il trasferimento dei rifugiati, ma ha affermato qualcosa che alla luce del processo appare ancora più rilevante: che le inosservanze delle Linee Guida dello Sprar vanno trattate all’interno della logica amministrativa, incluse eventuali penalizzazioni. Così non è avvenuto, spezzando il principio della leale collaborazione: lo Sprar non andava chiuso e nel chiuderlo i funzionari del servizio Sprar hanno disatteso le Linee Guida. Insomma, se è probabile che Lucano abbia contravvenuto ad alcune regole dello Sprar, nell’intento di costruire quel modello di sviluppo che nella sua visione poteva garantire ai migranti l’integrazione e ai locali il riscatto da un destino di abbandono e sottosviluppo, è invece certo, perché lo stabilisce il Consiglio di Stato, che quelle regole non sono state rispettate dai funzionari dello Sprar, e per un fine meno “nobile”: chiudere un servizio, distruggere un’esperienza, mortificare una comunità che aveva provato a rialzare la testa.

Il dolo. Se togliamo queste ambiguità con il piano amministrativo, cosa rimane del processo penale? Il dolo, l’appropriazione, il vantaggio economico, personale: tutto quello che la Procura non ha potuto provare nell’azione di Lucano. In mancanza di questo, l’accusa ha proposto una sorta di omogeneizzazione dei reati imputati, tutti praticamente ricondotti a una “distrazione di fondi” su cui si baserebbero. Ma quali fondi venivano distratti? Quelli che Lucano dichiarava apertamente di riuscire ad economizzare sui fondi pubblici che riceveva, grazie ai costi contenuti della vita in un contesto come quello di Riace, ma anche grazie alla sua attenzione a che neanche un centesimo venisse usato per scopi diversi da accoglienza e integrazione.

Per l’accusa, proprio queste “economie”, che considera illegittime di per sé, indipendentemente dalla loro destinazione, sono il cuore dei vari reati. Tutte le pratiche che da sempre hanno caratterizzato l’esperienza di Riace – le borse lavoro, i bonus locali, i lungo permanenti, le occasioni di lavoro create per rifugiati e autoctoni, alla ricerca di quell’equilibrio fra ospitalità dei rifugiati ed economia locale che è considerato il tratto distintivo di quel modello -, sarebbero tutte inficiate dal peccato originale di esser state realizzate grazie a quelle “economie”. Di fronte alle richieste del Presidente, che a più riprese ha domandato: ma non erano pur sempre finalizzate all’integrazione? e di fronte agli avvocati della difesa, che nel contro-esame leggono le Linee Guida dello Sprar, dove si ammette per l’appunto una gamma variegata di azioni a fini integrativi – la Procura deve riconoscere che potevano, sì, rientrare nelle Linee Guida, ma oltre una certa cifra avrebbe dovuto esserci una richiesta specifica che sarebbe invece mancata. Ora, la mancanza di tale richiesta non ricadrebbe di nuovo fra le inadempienze amministrative sanzionabili? Chissà. Intanto però, l’accusa tratta tutte le attività messe in piedi a Riace in modo indifferenziato, riducendole tutte a quell’unico elemento, la distrazione di fondi, che le avvolge dell’aura di reato.

Reati ex-post. Il cuore dei reati imputati a Lucano sta dunque in quelle “economie” che ha utilizzato per portare avanti la sua idea di integrazione. Come dice Sportelli, si tratta di “guadagno pulito”, di soldi non spesi per i migranti, ma per “altro”. C’è però un punto debole in tutto questo: non si tratta infatti di una clamorosa scoperta dell’indagine; a Riace le “economie” sono state fatte e usate alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, sono state rivendicate apertamente come innovazioni importanti nel lavoro di integrazione, sono state oggetto di libri e articoli, film e documentari. Erano tutti fatti ben noti anche agli uffici dello Sprar o del Cas, che li hanno tollerati per anni, hanno continuato ad approvare i progetti e a inviare rifugiati. Che cosa ha fatto sì che quelle pratiche abbiano cambiato di segno? L’impressione è che i reati attribuiti a Lucano siano reati ex-post: pratiche portate avanti alla luce del sole, ammesse e tollerate per anni, diventano improvvisamente reati per effetto di quel cambiamento di prospettiva politica su immigrazione e asilo, che dal 2017 in poi ci ha precipitati nel baratro di razzismo, respingimenti, porti chiusi, rifiuto del soccorso in mare. Insomma, una forzatura sugli atti, in nome di idee che pretendono di riscriverne il senso, operazione centrale in ogni processo politico.

Il movente. Per giustificare che tutt’a un tratto questa tolleranza si interrompa, anzi si trasformi in criminalizzazione, ci sarebbe bisogno di un dolo accertato, un abuso personale comprovato. Ma per accertare il dolo, ci vorrebbe un movente. Fin dall’inizio, alle richieste del Presidente di chiarire il movente delle azioni esaminate, la Procura risponde che non c’è prova che Lucano sia stato mosso dalla ricerca di un vantaggio economico; anzi, agiva per motivi ideali di umanità e accoglienza. Ad un certo punto, avanza un’ipotesi diversa: non c’era vantaggio economico, ma un presunto vantaggio “politico-elettorale”; anche questo però non regge a lungo nella narrazione della Procura, e non riesce ad andare oltre un’affermazione apodittica, anche perché Lucano non si è candidato a nessuna elezione dal periodo dell’indagine in poi. Così pian piano viene abbandonato e il tema stesso del movente viene quasi del tutto espunto.

Le strategie dell’accusa. Riprendo allora in conclusione le ipotesi che ho proposto nel monitoraggio delle udienze. Nel suo rifiuto sistematico di tematizzare l’integrazione, che è stato notoriamente il punto di forza di Riace, la strategia dell’accusa sembra essere di attaccare il cuore stesso del modello Riace. Se le “economie” sono di per sé un reato penale, indipendentemente da come sono state utilizzate, allora l’esperienza di Riace non ha più nulla di esemplare, è equiparabile a un qualsiasi business dell’accoglienza, dove parte dei fondi pubblici sono effettivamente usati per tutt’altro. Se invece si nominano le attività in cui quelle economie sono state investite a Riace, allora si vede che non sono state spese per “altro”. Al contrario, hanno reso possibili le borse lavoro, i lavori di restauro e di bonifica, i servizi, i laboratori, la fattoria didattica, il frantoio di comunità, il turismo solidale, le iniziative culturali e di spettacolo. Sono state insomma il motore di quel connubio riuscito di integrazione dei migranti e sviluppo della comunità locale che è il cuore dell’anomalia di Riace. Spogliare quell’azione pubblica delle sue realizzazioni in termini di integrazione, significa privare del loro contenuto tutte quelle attività, togliere loro l’anima, ridurle a quel “gruzzolo” – per dirla con Sportelli – che Lucano “non ha speso e rimane a sua disposizione, cioè della sua associazione”. Come dire: non c’era niente di particolare a Riace, c’erano solo gruzzoli a disposizione come in tanti altri posti. E questo è utile anche per la seconda, e complementare, strategia dell’accusa: delegittimare Lucano, che dell’integrazione aveva fatto la bandiera dello sviluppo della sua comunità contro un destino già scritto di declino. Se non si riesce a provare un suo vantaggio economico, si può sempre provare ad insinuare che aveva gruzzoli a sua disposizione… Negare l’anomalia di Riace e demolire il Sindaco che l’aveva costruita mettendo il suo impegno creativo al servizio dei suoi ideali di solidarietà e umanità sono le due facce del tentativo di colpire al cuore la diversità di Riace e del modello di integrazione che vi si perseguiva, per evitare che quell’anomalia possa essere vista come laboratorio di buone pratiche, come rivelatrice di carenze di sistema nell’organizzazione dell’accoglienza in Italia, come esempio di convivenza pacifica fra comunità diverse.  A questo punto, dolo o non dolo, movente o non movente, è ormai Riace stessa che è diventata IL reato.

Il reato è l’idea di comunità, di sviluppo, di integrazione fra i popoli che Riace rappresenta. Per questo il processo politico in corso a Locri contro Lucano ci riguarda tutti.