Alessandro Vanoli è studioso, storico, divulgatore, romanziere particolarmente legato al Mediterraneo e al mondo arabo. Ci ha appassionato il suo modo di divulgare la storia divertendo senza essere mai banale.

Intanto sta uscendo il tuo terzo libro di una evidente quadrilogia sulle stagioni, ci puoi parlare del libro e del progetto?

La storia delle stagioni è nata da una lunga serie di riflessioni fatta con la mia editor. Mancava un progetto del genere e mi sembrava che potesse essere una bella scommessa. Guardare al rapporto millenario dell’uomo col clima era un modo per scavare nelle nostre radici più profonde e riscoprire quel legame con la natura che, malgrado tutto, non abbiamo mai davvero dimenticato.

Una volta, per parlare di storia,  esisteva il romanzo storico o il saggio; ora si è inserita questa nuova forma letteraria, che tu hai praticato abbastanza, di scrivere storie sulla storia: com’è questa nuova forma, dove può portare, a cosa serve?

Sai che non sapevo come definire quello che faccio? Ma storie sulla storia mi piace. Credo sia qualcosa che sta avvenendo in generale nel panorama letterario. Stiamo ibridando i generi (o meglio: i generi, come è sempre accaduto, stanno cambiando e noi la percepiamo come un’ibridazione). Pensa ad esempio (giusto per guardare davvero alto) a Carrere e a quello che ha fatto con Il regno: una storia del Vangelo di Luce che è anche una storia di se stesso alle prese con il Vangelo di Luca. Ecco credo che il punto sia lì: usare l’analisi delle fonti per approdare nella letteratura. A che scopo? Molti credo. Uno: è buon mezzo per mostrare la complessità del gioco storico. Due, è un buon mezzo per aggiungere un tassello di verità (perché la storia non racconta il vero, ma la migliore approssimazione possibile a un vero perso ormai nelle nebbie del tempo; e aggiungere a questo la verità di chi scrive, non fa certo male). Tre, permette di parlare del presente da un punto di vista non scontato. Quattro, se lo sai fare questo gioco, puoi rendere il tutto divertente e emozionante, due categorie che non disprezzo affatto.

Tu sei anche un saggista divulgatore soprattutto legato ai tuoi studi del mondo arabo: secondo te quanto è importante la comprensione e la relazione con il mondo arabo in questo momento storico? E a che punto siamo?

Quando ho cominciato questo mestiere, negli anni Novanta, eravamo a zero: nessuno sapeva niente. Ma potenzialmente questo ci rendeva più possibilisti. I disastri di inizio millennio hanno riempito la testa di slogan e facili convinzioni, tanto in positivo quanto in negativo, e questo ha reso tutto molto più difficile: la cosa più difficile è sempre insegnare a uno che pensa già di sapere.

Credo che una migliore conoscenza del mondo a maggioranza musulmano, arabo, turco, berbero (le definizioni e le semplificazioni sono sempre un problema) sia uno dei prerequisiti per recuperare una dimensione mediterranea, un’idea di appartenenza che ormai è sfuggita dal nostro orizzonte. Ma devo dire che in tempi di chiusura e di facili populismi o radicalizzazioni del pensiero, anche le varie controparti hanno davvero molto lavoro da fare: l’ignoranza e le facili generalizzazioni riguardo al mondo cristiano o al mondo europeo o – concetto che non sopporto – all’occidente (difficili anche qui le definizioni) producono danni altrettanto notevoli.

Il Mediterraneo: mare di pace o di guerra? La storia, soprattutto manualistico scolastica l’hanno scritta di più i guerrafondai, i vincitori delle battaglie: senza essere manichei, esagerati o ingenuamente revisionisti possiamo leggere e approfondire una storia del Mediterraneo come luogo di scambi, di cultura, di relazioni, di equi commerci?

Che la storia la scrivano i vincitori è una vecchia balla, nata sul tronco (vero) della storia positivista scritta tra Otto e Novecento, la storia cioè che usava soprattutto le cronache ufficiali: quelle che procedono appunto per regni, sovrani e battaglie. La verità è che da molto tempo, da un secolo ormai, la storia la scrivono gli storici. Cioè quel gruppo di professionisti figlio di un metodo di analisi delle fonti elaborato nello stesso periodo della rivoluzione scientifica e ad esso legato: dubbio metodologico, verifica dei risultati e via dicendo. E certo, tra loro c’è stato anche qualche guerrafondaio, ma gli storici si sono occupati letteralmente di tutto. E anche quando avevano a disposizione solo i testi prodotti dai vincitori, hanno imparato con grande raffinatezza a far parlare, attraverso di essi, pure i vinti. Quindi no: forse i vincitori hanno prodotto più carte e documenti, ma la storia non la scrivono loro.

La questione della storia mediterranea poi è un’altra cosa. Certo che possiamo e dobbiamo leggere la storia mediterranea come una storia di scambio e di relazione (a metà del Novecento già lo facevano da due punti di vista molto diversi Braudel e Goitein), ma credo che sarebbe miope cercare di costruire una storia di appartenenza facendo finta che ciò che conta da sempre sia la pace. L’uomo è un animale pessimo e lo ha sempre dimostrato. Quando studiamo la storia d’Italia (anche in chiave identitaria), studiamo una serie di guerre fratricide. Perché non dovremo farlo per il Mediterraneo? Non si tratta secondo me di raccontarci una pietosa bugia dicendo che ci siamo sempre voluti bene; ma piuttosto si tratta di guardare in faccia al nostro passato – fatto di scambi continui, di mercanti, di schiavitù, di violenze, di guerre, di matrimoni, di amori, di pestilenze – e poter dire che tutto questo ci ha donato una storia comune; tutto questo costituisce le nostre radici; in nome di tutto questo dobbiamo saper costruire un futuro assieme.

Parlare di storia è parlare della memoria, bene comune che la società attuale tende a perdere: cosa hai in mente per far sì che le nuove generazioni, a scuola e fuori, coltivino la passione per la storia, il gusto della ricerca e della curiosità che in continuazione affiora dai tuoi libri?

Questo è un problema complicato…

Punto primo. Quando parliamo di passione per la storia, spesso intendiamo implicitamente la storia patria: la storia nata nell’Ottocento per costruire l’identità nascente della nazione. Una storia fatta di confini, di geografie regionali, dove la scansione del passato era data dalla nostra esperienza (antico, medioevo, moderno, contemporaneo… dove il contemporaneo era la prima metà del Novecento… e non a caso non si riesce a colmare il gap nei programmi scolastici), una storia che al limite prevedeva la conoscenza dei vicini che ci avevano più influenzato politicamente (Francia e Sacro Romano Impero a marchio tedesco per lo più). Quella storia sta in effetti venendo meno. Ma è vero che di Cina, mondi musulmani o Africa non sapevamo niente prima e non sappiamo niente ora.

Punto secondo. La deriva tecnologica e produttiva e una cultura schiacciata sul presente hanno in effetti contribuito a togliere dal nostro orizzonte l’idea del passato. La distruzione del vecchio modello scolastico e l’erosione delle ore di storia e geografia hanno fatto il resto.

Punto terzo. Non sono sicuro però che la passione per la storia in sé sia venuta meno: le presenze massicce ai festival, la risposta di pubblico ad eventi teatrali (penso anche ai miei, lo ammetto), le fortune mediatiche di alcuni miei colleghi, ci dicono che in realtà la passione è lì che chiede solo di essere rinfocolata.

Punto quarto. Come fare allora? Come consegnare alle nuove generazioni, a scuola e fuori, la passione per la storia, il gusto della ricerca e della curiosità… Credo che i grandi festival, il teatro, il web, i videogiochi persino, vadano tutti benissimo. Ma non funzionerà mai se non riusciremo a insegnar loro che storia è appartenenza. Che la storia è bella perché è parte di loro, perché li aiuta a capirsi, perché gli consegna gli strumenti migliori per comprendere ciò che accade e li circonda. E quindi occorrerebbe davvero che la scuola e le istituzioni culturali lavorassero di concerto in questo senso… ma qui si entra in un altro ordine di problemi. Alla triste constatazione che alla politica e a una parte della cosiddetta società civile, la cultura fa ormai un po’ schifo. Dalla ribellione a questo temo dovremo ripartire, prima che dalla storia, se vogliamo davvero cambiare il nostro destino.

Ulteriori info bibliografiche e di attività, nonché deliziosi video divulgativi su vari temi si trovano sul sito https://www.alessandrovanoli.it/