Lá no meu interior tem uma coisa que não tem nome. Quando eu dou nome à coisa, a coisa some. Menino, que coisa é essa? Ele me respondeu: é Fome (Mariene de Castro – Quebradeira de Coco)

Là dentro di me c’è una cosa che non ha un nome. Ma quando la nomino, quella cosa scompare. “Bambino, cos’è questa cosa?” e lui mi rispose: è la Fame. 

Il ministro dell’agricoltura lo ha già detto più di un anno fa. In Brasile nessuno patisce la fame. Le nostre città sono piene di alberi da frutto, basta allungare la mano e a nostra disposizione penzolano felici banane, noci di cocco, more, pitangas, jabuticabas e manghi. Il problema fame non esiste. Ieri un camion frigorifero si è ribaltato in mezzo alla strada. L’autista ha perso il controllo, una sterzata brusca, una distrazione, nessun ferito ma ingenti danni. In pochi minuti, il saccheggio. L’orda impazzita porta via a spalla i quarti di bue sparpagliati sull’asfalto. Sono in tanti. La tristezza delle immagini è il ritratto del martirio, l’umiliazione quotidiana, la fame, la fine.  

Non fare quella faccia, lo sai che non è vero. Lo sai benissimo che di quello che racconto il novantanove per cento è inventato, e il resto è pura fantasia. Per cui mettiti calmo e ascolta che tanto non è vero niente. E poi cosa ci facevo a quell’ora proprio lì? Me lo spieghi cosa ci sarei andato a fare in quella strada? Lo so che è a due passi dal metrò, ma io lavoro tutto il giorno e non ho tempo da perdere. Sono anni che non ci passo. Prima però ci andavo sempre, quando c’erano i meninos . Un intero palazzo occupato da loro, i meninos de rua . Centinaia di ragazzini ammucchiati come topi. Quel palazzo è stato murato e i ragazzini se ne sono andati, adesso in giro ne vedi pochi, non è vero? Quella strada è diventata una boca de rango, un punto di distribuzione di alimenti per i poveracci. No, non è vero, non lo è più da un pezzo. Adesso ci stanno a bivaccare i catadores , quelli che tirano il carretto e che si fermano ad ogni angolo a raccattare spazzatura, ferro vecchio, cartoni, robaccia da rivendere alle cooperative di riciclaggio, anzi, alcuni di essi ne fanno parte, dico, appartengono alle cooperative. Non li hai mai visti intralciare il traffico col loro carretto, mezzi nudi, andare in contromano, razzolare nei bidoni?

La più grande e ricca città delle Americhe li odia, ma affida a loro il compito di raccogliere il materiale di scarto; il Comune ha i camion appositi adattati, attrezzati. Ma loro vivono e dormono per strada, sdraiati sotto il loro carretto, perché in tutta la città non esiste un solo centro di accoglienza in cui possano entrare con il carretto sgangherato carico di roba raccolta nell’immondizia. Dimmi sinceramente, tu lo lasceresti fuori il tuo carretto pieno di tutto quello che hai raccolto in un giorno di lavoro infame col rischio che te lo rubino?

Saranno pure cianfrusaglie, ma quella roba è frutto di ore di lavoro sotto il sole, la pioggia, gli sberleffi dei passanti, i cani. A proposito di cani: lo avrai notato anche tu che ogni catador ha un cane tutto suo che lo accompagna dappertutto. A volte se ne sta fermo appollaiato sul carretto, buono buono, ma sicuro di sé, io non mi avvicinerei più di tanto, te lo immagini se ti morde? Rabbia, febbre gialla, lebbra, scorbuto, beri-beri, tetano, cimurro e compagnia bella! E non fare ancora quella faccia con la puzzetta sotto al naso. Te la do io la puzzetta, te la do. Anzi te lo spalmo in faccia io a te il tanfo. Altro che puzzetta sotto al naso. Tu non lo puoi immaginare. Non te lo sogneresti mai, quel tanfo. Di che razza è? È un bastardo, un cane, un cagnaccio orribile, sbronzo e sbilenco, sporco e pieno di pulci, puzzolente e infido. Immagina la scena: l’uomo a tirare il carretto, il cane, la bottiglia di pinga . Sì la pinga , 45 gradi, un sorso, un altro, e vai. Catador , al plurale Catadores . Non so come tradurlo, prendilo così, direttamente in portoghese. In quella viuzza che ti dicevo prima, ce n’era una decina, o forse più, tutti per terra, stravaccati. Faceva caldo, i catadores all’ombra del loro carretto. Un fuoco acceso. Lo spiedo. Quante mense popolari ci sono in centro? Nessuna. La più vicina è a tre chilometri. Hai voglia a tirare il carretto. Tre chilometri su e giù per discese e salite, macchine e traffico, strombazzamenti e insulti. Per cui oggi erano tutti lì, quasi seduti, quasi sdraiati. Lo spiedo. Che odore ha uno spiedo? O meglio, come è il suo tanfo? La pelle buttata per terra come un cencio, uno straccio, come pelle di cane scuoiato. La testa a ridosso del tombino. Neanche una mosca, ma la testa mozzata era mozzata per davvero. Non è vero. Ho detto pelle, ma non era la pelle, era il pelo, insomma, il cuoio del cane. Lo spiedo girava sul fuoco. Un bidone per barbecue, un pezzo di ferro come spiedo da infilarci i pezzi del cane da arrostire. Mangiavano il cane. Sì. Mangiavano il cane. 

No, non crederci, lo sai che invento tutto, e ho inventato anche questa. Capirai se in pieno centro di São Paulo c’è gente che uccide un cane, lo scuoia, accende il fuoco e se lo fa allo spiedo. Io sono corso alla base mobile della polizia: “Non possiamo farci niente”, mi hanno risposto, “come fai a sapere che è davvero un cane quello che stanno mangiando?” 

Dai, non fare quella faccia, ho inventato tutto, ma dove vai, torna qui, non vuoi sapere come è andata a finire? Non vuoi che ti racconti che c’era uno che rideva come un pazzo e quando mi ha visto me ne ha pure allungato un pezzo? La vedi la cattedrale? E il Palazzo di Giustizia? L’entrata del metrò? Di notte ci sono le bambine prostitute, di giorno invece si mangiano i cani. Non ci credi?