Non erano bastati 15 anni di guerra civile, la povertà, le divisioni confessionali del Paese a martoriare il Libano. L’esplosione terrificante del 4 agosto ha inferto un colpo mortale ad un Paese che stava già facendo i conti con il lockdown per il Coronavirus ed una drammatica crisi economica. A riguardare le immagini vengono ancora i brividi, quelle del fungo di polvere e fuoco che per certi versi ricorda le detonazioni delle bombe atomiche. Motivo per il quale l’esplosione a Beirut è stata ribattezzata “la Nagasaki Libanese”. Le immagini satellitari mostrano un’immagine sconcertante: la porzione di territorio nel porto di Beirut è stata completamente rasa al suolo. Dal satellite si intravede un enorme buco che, se non fosse stato provocato dall’esplosione, sarebbe stato associato ad un golfo.

La situazione prima della bomba

Il Libano è un Paese atipico nel Medio Oriente. Considerato Il Cuore del Mediterraneo, ha una popolazione divisa e metà tra cristiano maroniti, musulmani sciiti e musulmani sunniti. Non si conoscono con esattezza le proporzioni, dal momento che non vengono più effettuati censimenti ufficiali dal 1932 per via dell’elevata sensibilità della popolazione a riguardo, e in virtù del fatto che i rapporti di forza e la Costituzione del Paese dovrebbero conseguentemente essere riscritti. Dopo la Guerra Civile culminata con l’accordo di Taif del 1989, si è stabilito un accordo informale per cui il Presidente della Repubblica viene scelto tra i Cristiano Maroniti, il Premier tra i Sunniti ed il Presidente del Parlamento tra gli Sciiti. Da allora si è cercato di riconciliare le comunità all’interno del Paese, nel difficilissimo compito di coniugare stabilità governativa e rispetto delle voci di tutti.

Prima dell’esplosione della bomba, il Primo Ministro era Hassan Diab, (un accademico sunnita paradossalmente più vicino ad Hezbollah che ai sunniti, e per questo osteggiato dagli stessi) succeduto a Saad Hariri, che si era dimesso nell’ottobre 2019 a causa delle forti proteste popolari. Lo stesso Diab, poco dopo l’esplosione, ha rassegnato le dimissioni. Il Presidente Michel Aoun, cristiano maronita, si è invece rifiutato per ora di dimettersi, sostenendo che il suo abbandono getterebbe il Paese nel caos più di quanto non lo sia già. Un caos che ormai imperversa in tutto il Libano, con proteste di piazza contro tutta la classe politica, accusata di essere corrotta ed impreparata, e di aver contribuito a rifocillare le casse dei propri lobbisti invece che della gente.

Anatomia di una crisi economico-politica

Più di metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, l’inflazione è al 250%,il rapporto debito/pil (il terzo più alto del mondo) è al 170%, mancano beni essenziali, non funzionano i servizi (Beirut è stata teatro di frequentissimi blackout di corrente) e l’economia è al collasso. Con l’esplosione sono rimaste senza casa più di 300mila persone. Poco prima della stessa, il Libano aveva dovuto dichiarare default per l’impossibilità di pagare Eurobond in scadenza pari a 1,2 miliardi di dollari. Un epilogo sorprendente, ma non troppo: il Libano mostrava già chiari sintomi di una crisi imminente. Nonostante fosse diventato La Svizzera Mediorientale, per via del suo enorme e prestigioso settore finanziario e bancario, il Libano dipende quasi completamente dalle importazioni. L’economia del Paese si reggeva infatti sulla fiducia degli investitori stranieri, ed era quindi costituita in gran parte dal settore finanziario e da quello dei servizi. Settori remunerativi, ma che alla lunga non avrebbero potuto garantire stabilità al Paese per la loro natura improduttiva. Il giocattolo ha funzionato finché tutti credevano che potesse funzionare.

Il Libano è stato messo ulteriormente in ginocchio dal Coronavirus, che è tuttora fuori controllo, e dalle massicce immigrazioni di profughi siriani in seguito alla Guerra Civile iniziata nel 2011. In un Paese con poco più di 4 milioni di abitanti, l’arrivo di oltre 1,5 milioni di profughi siriani ha profondamente destabilizzato l’area. Il Libano è diventato il Paese con il più alto rapporto abitanti/rifugiati al mondo. I profughi, quasi tutti musulmani, hanno rinverdito una tensione tra cristiani e musulmani che stava venendo rimarginata da anni di sviluppo culturale e dialogo tra le comunità. Un modello di coesistenza religiosa innovativo in Medio Oriente, tanto che Giovanni Paolo II vi fece visita nel lontano 1997, elogiandolo personalmente. Un Paese che ha resistito anche alla breve guerra tra Hezbollah ed Israele sul proprio suolo nel 2006, che è stata teatro di interferenze siriane e di attacchi missilistici dello stesso Israele, che non è collassato dopo l’omicidio di Rafiq al-Hariri di cui si attende il verdetto sul colpevole (sono sospettati 4 militanti di Hezbollah) avvenuto quindici anni fa. Il camion bomba che uccise l’allora premier e altre 21 persone in quella che sarà ricordata come la Strage di San Valentino , era il 14 febbraio del 2005, deflagrò proprio nei pressi del porto.

La spiegazione dietro l’esplosione

Nonostante si siano avanzate le più disparate teorie sui responsabili dietro all’esplosione (da Israele ad Hezbollah, passando per la Francia e l’Arabia Saudita), la versione principale che sembra emergere è quella di un’incuria dell’amministrazione locale. Nell’Hangar 12 del porto, dove è avvenuta l’esplosione, erano infatti presenti ben 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, materiale altamente infiammabile. Sono già partite le indagini sui presunti colpevoli dietro l’incidente, ed il Governo ha già assicurato che partiranno le indagini. I principali sospettati sono i funzionari della dogana, accusati di non aver prevenuto l’incidente. Questi si sono difesi dalle accuse asserendo che i materiali erano stoccati nell’hangar dal 2013, anno in cui un’imbarcazione qatariota diretta in Mozambico fu costretta a fermarsi al porto di Beirut per un guasto al motore. In base alle leggi libanesi, ne fu decretato l’arresto. I funzionari della dogana sostengono di aver inviato sei lettere da quell’anno al Governo Centrale per far rimuovere il nitrato d’ammonio, ma sono rimaste inascoltate. Il vero paradosso è che, secondo le ricostruzioni dei media locali, a provocare l’esplosione è stato un incendio durante le operazioni di saldatura, ma il direttore delle dogane libanesi ha ricordato che vicino all’hangar 12 c’era anche un deposito di fuochi d’artificio, che potrebbero aver innescato e/o aumentato la deflagrazione.

Un’esplosione che è stata quindi provocata da una gestione amministrativa incompetente e assente. Un’esplosione che, oltre ai tratti estetici inquietanti, nella realtà ha ucciso più di 200 persone e ferite 6000, secondo l’ultimo rapporto della Croce Rossa Libanese. Si tratterebbe quindi di un disastro umanitario provocato dalla corruzione e dal clientelismo politici. Il Libano è quindi in un momento di grave crisi non solo umana ed economica, ma storico-politica. La distruzione del porto di Beirut ha assestato un durissimo colpo alla città, che in quel porto basava gran parte della propria economia e delle tratte commerciali. Un porto fondamentale per il Mediterraneo, oltre che per il Paese stesso.

Le mani straniere sul Libano

Il Libano è un Paese dove si intrecciano da sempre numerosi interessi geopolitici. Primo fra tutti quello della Francia, che sul Paese ha esercitato un Mandato dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano al termine della prima guerra mondiale. Con la ratifica delll’accordo Sykes-Picot fra Gran Bretagna e Francia (16 maggio 1916), la Società delle Nazioni affidò la Grande Siria, comprese le cinque province che oggi costituiscono il Libano, al controllo della Francia. Il Libano ottenne l’indipendenza nel 1943, durante la seconda guerra mondiale. Un mandato che ha lasciato un segno profondo nel Paese: la popolazione conserva un ricordo benevolo del controllo francese dell’epoca, memore di un periodo di relativa pace e prosperità. Subito dopo l’esplosione, il Presidente francese Emmanuel Macron è andato a Beirut sul luogo dove la bomba è deflagrata, nel pieno delle proteste antigovernative. La folla lo ha acclamato chiedendogli di intervenire e di porre rimedio alla situazione. Macron ha parlato della necessità di ricreare il tessuto sociopolitico attraverso profonde riforme della società.

Un aiuto, quello internazionale, che sembra lontano dalla realizzazione. L’intervento del Fondo Monetario Internazionale è stato reso impossibile dall’opposizione dei Partiti che sostengono il Governo (primo fra tutti Hezbollah), ma anche per via del fatto che l’instabilità politica e la mancanza di presupposti per la creazione di un moderno Stato democratico rendono impossibile al FMI un qualsiasi tipo di intervento. Il Fondo Monetario Internazionale, infatti, interviene solo in Paesi che garantiscono la tenuta dello Stato di Diritto e di un adeguato sistema economico. Oltre alle mani della Francia, anche quelle di Russia (che ha promesso un miliardo di euro), della Cina (primo partner commerciale del Paese), degli Emirati Arabi, degli Usa, della Turchia, dell’Iran (che ha tutto l’interesse a far mantenere il potere ad Hezbollah) e di tanti altri che vogliono trarre dalla situazione il maggior vantaggio possibile.

Il ruolo dell’Italia

Anche l’Italia ha da sempre interessi molto forti in Libano. Il nostro Paese ha messo subito in campo una fornitura di 8,5 tonnellate di aiuti sanitari, allocando ulteriori 9 milioni di euro di assistenza umanitaria in aggiunta ai 14,5 milioni già allocati nel bilancio 2020 della Cooperazione con il Paese. L’Italia è infatti a capo della missione UNIFIL, guidata dal Generale Stefano Del Col nella veste di Force Commander. Una missione nata con lo scopo di stabilizzare la regione e di garantire la pace. Ci sono circa 1100 militari italiani impegnati nella missione Unifil, il più grande contingente straniero. L’Italia è il secondo partner commerciale del Libano, dopo la Cina, e dal primo Governo Craxi si sono sempre più intensificati i rapporti fra i due Paesi. Quello che succede in Libano, direttamente o indirettamente, riguarda anche il nostro Paese.

Quali scenari futuri

Una già fragile situazione rischia di diventare una polveriera. Gli intrecci geopolitici in Libano, strettamente interconnessi sia con il Medio Oriente, per via della questione dei rifugiati siriani e per il rapporto con Israele, sia con l’Occidente, per via della grande interdipendenza finanziaria e commerciale con l’Europa e per il ruolo strategico che riveste per la Francia (e per l’Italia). Il verdetto sull’omicidio del primo ministro Rafiq al-Hariripotrebbe spaccare ulteriormente il Paese, se venissero confermate le accuse ad Hezbollah. Il caso è diventato internazionale in virtù dei rapporti di potere tra cristiani, musulmani sciiti e musulmani sunniti. L’Iran spera in una assoluzione di Hezbollah, Israele spinge dalla parte opposta. Turchia, Russia e Usa sono alla finestra. L’AIA potrebbe svolgere un ruolo cruciale in questa crisi internazionale, e decidere il destino del Libano. La politica rischia di perdere la propria legittimazione popolare, messa sempre più a rischio dalla sfiducia del popolo libanese e dal pressing francese. Intanto, bisogna trovare un modo per ripagare i debiti in piena crisi economica. In tutto questo, gli effetti della crisi sanitaria da Covid-19 sono imprevedibili, ma già drammatici. Una sola cosa è certa: ci auguriamo tutti che il Libano trovi finalmente la pace.

Qui di seguito vi presentiamo la testimonianza di Mohamed Rizk, un ragazzo libanese di 24 anni che ci ha raccontato il suo punto di vista sulla vicenda

I cristiani sono sempre, e sono tuttora appoggiati dall’Occidente, specialmente dalla Francia, mentre i musulmani hanno l’appoggio di tutto il Medio Oriente. È anche per questo che i rifugiati siriani sono stati strumentalizzati, per alimentare tensioni interne tra cristiani e musulmani che qualcuno non voleva che finissero. Il Libano è un Paese troppo piccolo per gestire una situazione del genere, ed è stato anche troppo generoso. La situazione economica è peggiorata moltissimo dalla crisi siriana: i rifugiati hanno abbassato il tetto salariale e i diritti dei lavoratori, perché chiedevano meno rispetto a tutti gli altri. Questo ha danneggiato moltissime attività libanese. La spaccatura è acuita anche a livello geografico: il Sud del Libano è a prevalenza musulmana, e ci sono anche molti palestinesi arrivati durante la Guerra Civile. Io sostengo che queste divisioni siano state utilizzate strumentalmente, per evitare che una fazione prendesse il sopravvento. Basta vedere quello che è successo con la bomba. I primi sospettati sono stati subito quelli di Hezbollah, stessa cosa per l’omicidio di Rafiq al-Hariri. Secondo voi perché quell’enorme quantità di nitrato di ammonio è rimasta stoccata per tutto quel tempo lì senza che nessuno facesse niente? La risposta è che serviva da deterrente per impedire a ciascun gruppo religioso, nel caso avesse assunto troppa forza, di mantenere quel potere. È una minaccia, esplosa adesso “stranamente” poco prima del verdetto dell’AIA sull’omicidio di Hariri. L’esplosione della bomba non è stata infatti un incidente, come dicono i media occidentali. Penso che sia stata fatta esplodere per evitare che Hezbollah acquisisse troppo potere . È normale quindi che il popolo non abbia fiducia nella classe dirigente. Viene visto tutto come uno schema mafioso e clientelare dove ci si basa solo sul mantenimento di potere. Basti pensare che l’80% delle persone che hanno guidato e guidano tuttora il Paese, hanno ricoperto ruoli di comando durante la Guerra Civile. L’attuale Presidente Aoun era uno dei principali generali maroniti, ed ora si presenta come massimo fautore della pace. In un contesto del genere, è normale che la popolazione veda di buon occhio l’arrivo della Francia. Con quel Paese abbiamo un rapporto fraterno, il Mandato della prima metà del ‘900 ha lasciato un segno indelebile nella nostra società. La crisi ci ha colpito ancora più duramente perché i libanesi sono un popolo da sempre incline all’armonia e a godersi la vita, non ci piacciono i conflitti. Ci siamo sempre basati sulla fiducia che ispiravamo agli altri Paesi per sopravvivere, e forse questo ci ha fatto adagiare sugli allori. Non abbiamo diversificato l’economia, che è completamente dipendente dalla Finanza e dai Servizi, e adesso ci mancano beni e servizi essenziali, tra cui cibo, acqua, gas e corrente elettrica. Spero che tutto questo finisca, ma non sono particolarmente fiducioso.”

 Massimiliano Garavalli