Martedì scorso in auto ho riattraversato la statale adriatica all’altezza di San Salvo Marina, quasi al confine con il Molise. Ogni volta che percorro quei pochi chilometri mi sale l’angoscia e, confesso, in momenti in cui ero solo in auto per la rabbia, la frustrazione, un senso infinito di devastazione che scava l’animo nel profondo, sono scoppiato anche a piangere. Non molto distante da lì, secondo alcuni, ormai vent’anni fa o quasi sono stati sversati rifiuti di ogni tipo. Molti sanno, o affermano di sapere, ma tutto è rimasto sempre nell’illazione e nella chiacchiera. E il triangolo della morte sulla trignina e dintorni in territorio molisano non è molto lontano. Ma quella zona è, soprattutto, una zona dove la vergogna e la bestialità di esseri che solo per convenzione linguistica e sociale si possono chiamare umani si ripete – nel silenzio e nell’accondiscendenza di tanta nauseante “brava gente” – ogni giorno: lì vicino ci sono complessi edilizi dove da tanti anni ci sono donne schiavizzate e soggiogate dai turpi piaceri di squallidi “maschi”. Si, quella è zona di sfruttamento della prostituzione, del mercato criminale e spesso mafioso. Dello stupro, della schiavitù, della bestialità di chi impunemente viola l’intimità di persone per arricchirsi. Un business su cui clan e sistemi criminali di ogni tipo, come ci ha ricordato giorni fa anche l’ultima relazione semestrale pubblicata dalla DIA (ma, basta cambiare date, alcuni particolari e i nomi delle inchieste, la mappa è pressoché identica da tanti, troppi anni), lucrano e si rafforzano.

Quando ero poco più che ragazzo, medi attivista da non molti anni, la realtà di cosa accade, le lacrime, i drammi, il rapimento dell’umanità, la distruzione cruente e massacrante di persone – lo ripeto ancora una volta persone, P-E-R-S-O-N-E – venne raccontata in “Le ragazze di Benin City”. La settimana scorsa gli accadde oggi di facebook mi hanno riproposto quest’inchiesta di Amalia De Simone https://www.facebook.com/amalia.desimone.1/posts/10214056924558850  giornalista vera e già allora per me un imprescindibile punto di riferimento di cui sento doveroso far conoscere, sostenere quando possibile le tantissime preziose inchieste (sono fatto così, forse sbagliato, forse socialmente incapace, ma influencer e certi vip non so manco che faccia hanno e come si chiamano, le mie very important people che mi “influenzano” sono persone come lei o Leonardo Palmisano, i cui libri sulla mafia nigeriana sono preziosi e importanti per capire questi sistemi criminali, le loro connessioni, complicità e dinamiche comprese quelle alla base dell’operazione della Polizia di Stato di stamattina contro Eiye) e altre/i del loro valore e impegno quotidiano libero, indipendente e prezioso). Un video che mi travolse come un tir in corsa, un cazzotto continuo allo stomaco, un dolore lancinante che non mi ha più abbandonato. Come quando scoprii, e da abruzzese mi sono vergognato di me stesso perché ho conosciuto la sua storia solo dopo molti anni, il dramma di Lilian Solomon, che nei mesi scorsi ho provato a raccontare insieme ad altri, drammi e lacrime, sangue, brutalità, annientamento della persona Che non accadono lontano da noi, non sono alieni dalla nostra società perbenista, moralista, ipocrita e che – al di là delle etichette – alimenta il peggio del peggio.  Ho cercato di raccontarlo grazie ad Irene Ciambezi della Comunità Papa Giovanni XXIII e della campagna “Questo è il mio corpo” nelle scorse settimane https://www.wordnews.it/leterna-pandemia-della-schiavitu-sessuale https://www.wordnews.it/ogni-sfruttamento-della-prostituzione-e-inaccettabile  Le parole, i racconti, le testimonianze di Irene rompono gli schemi e i veli, le facili parole al vento e i comodi luoghi comuni. Tutto questo accade accanto a noi e, anche chi si crede coinvolto sarà per sempre coinvolto. Le mafie, lo sfruttamento, i sistemi criminali sono essenzialmente questo: disumanità, brutalità, oppressione, sono le lacrime, il sangue e la vita degli emarginati, dei più fragili e indifesi, degli oppressi, delle vittime per il potere di altri. Accade ogni giorno, anche qui in Abruzzo. L’anno scorso, in queste settimane, ci fu una maxi operazione contro la mafia nigeriana tra il teramano e la provincia di Ascoli. A dicembre un’altra, altre in questi mesi coinvolgendo anche Chieti, l’ultima stamattina*. A tutto questo vien da ripensare ogni volta che passo accanto a quel complesso edilizio, a quel luogo qui a non molti chilometri da dove sto scrivendo. Come in tanti altri. E un’angoscia, un senso di frustrazione e impotenza perché qualsiasi cosa sento è troppo poco e andrebbe fatta meglio, in maniera più efficace e con più forza. E mi vien da piangere.

 

 

** (Polizia di Stato, canale telegram): «Conclusa questa mattina l’operazione “Pesha” dalla questura di Teramo. Le indagini della Squadra mobile hanno individuato una cellula dell’organizzazione mafiosa internazionale Eiye, di origine nigeriana. E proprio di nazionalità nigeriana sono le 15 persone sottoposte a fermo per ordine della Direzione distrettuale antimafia di L’Aquila. Tutti i fermati sono appartenenti alla cellula “Pesha” che aveva la sua influenza su tutta la zona costiera adriatica da Teramo sino ad Ancona. Impressionante il numero di reati commessi dagli affiliati all’organizzazione mafiosa: riciclaggio ed illecita intermediazione finanziaria verso la Nigeria; tratta di giovani donne sessualmente sfruttate lungo la strada Bonifica del Tronto e sottoposte a violenze e vessazioni; cessione di stupefacenti; reati violenti nei confronti di aderenti ad altri gruppi o punitivi nei confronti di altri connazionali.   Gli investigatori hanno documentato, anche grazie alla collaborazione di un affiliato che si è dissociato dopo un pestaggio particolarmente duro, violenze nei confronti di affiliati che non hanno rispettato le rigide regole del clan, scontri con l’associazione rivale denominata “Black axe” e ancora intimidazioni a giovani ragazze costrette a prostituirsi, riti di affiliazione e una serie di contatti internazionali in Francia, Germania, Belgio, Svezia con connazionali affiliati alla medesima organizzazione. L’operazione è stata condotta anche con la collaborazione della Squadra mobile di Ancona. La confraternita L’organizzazione o “cult” nasce in Nigeria come “Supreme eiye confraternity”. Il cult è strutturato in articolazioni nazionali denominate “Aviary” suddivise, a loro volta, in cellule territoriali locali chiamate “Nest” (nido). La simbologia ed i codici linguistici sono garanzia e connotato di segretezza: sono ispirati al mondo degli uccelli (Eiye è un uccello mitologico della tradizione nigeriana) e richiamano colori ed altri elementi individualizzanti comunemente riconosciuti all’interno della comunità nigeriana come simboli tipici del cult Eiye. L’ingresso nell’Associazione è subordinato ad un rito di affiliazione che avviene alla presenza del vertice e di altri membri del gruppo e nel corso del quale si alternano atti di violenza e riti tribali; al termine viene formulato il giuramento di fedeltà agli Eiye con il quale l’affiliando si impegna al rispetto delle regole dell’associazione denominate “orientation”. L’ingresso nella confraternita prevede l’obbligo alla partecipazione, mediante il pagamento di una sorta di “tassa di iscrizione”, al finanziamento della confraternita verso la quale gli associati sono a disposizione tendenzialmente “per la vita”. Durante le riunioni, i capi (denominati Ibaka), definiscono le strategie criminali del gruppo e compiono i riti di affiliazione. Gli appartenenti al gruppo criminale, cosi come avviene per le mafie tradizionali, si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo, determinando assoggettamento, omertà, controllo del territorio, con particolare riferimento alla comunità nigeriana, ma con inevitabile riflesso su tutta la città».