Nei momenti di crisi, la sfida più difficile per un individuo è quella di preservare a tutti i costi la propria integrità.

Numerosi sono coloro che pensano che il potere sia prerogativa di pochi, quando questa crisi del Covid-19 ha messo in evidenza qualcosa che tutti hanno potuto notare: la fragilità di un sistema che può essere messa a repentaglio da un singolo grande evento.

Noi deleghiamo collettivamente il potere a pochi, probabilmente ai più ambiziosi, ma glielo deleghiamo. Per mancanza di unità, di obiettivi comuni ben definiti, a volte fino al punto di distruggerci a vicenda nella difesa di interessi apparentemente contraddittori. Alcuni hanno compreso bene il motto del “divide et impera”.

Mi stupisco sempre di fronte alla differenza tra le idee esposte pubblicamente, quando, per esempio, ci si esprime sui social network, e quelle, molto più ricche di sfumature, che si confidano nell’intimità di uno scambio personale. A volte mi dico che basterebbe semplicemente invertire le due cose: tenere per sé tutta la collera e l’amarezza e offrire agli altri il meglio delle proprie fragilità, della propria umiltà, delle proprie domande, o più semplicemente della propria umanità. Questo calmerebbe il dibattito, favorirebbe l’ascolto e il dialogo. Perché, alla fine, è attraverso il consenso che si possono trovare e mettere in atto delle politiche a beneficio della maggioranza.

Mantenere la propria integrità significa ritornare sempre sui propri principi, credendoci veramente. Costi quel che costi. Essere pronti a perdere tutto per loro, sia esteriormente che socialmente, rimanendo fermamente convinti che il vero potere sia quello su sé stessi: è proprio in sé stessi che si può preservare ciò che si ha di più prezioso.

Ricordo la scena di un film che mi ha profondamente segnato e che posso riguardare spesso, riuscendo sempre a provare la stessa emozione. Si tratta di una delle scene finali de “La rosa bianca – Sophie Scholl” (Sophie Scholl – Die letzten Tage, 2005), di Marc Rothemund e dura appena due minuti. I fatti riportati in questo film sono rigorosamente accurati, i dialoghi presi da archivi privati.

Condannati a morte per aver distribuito dei volantini antinazisti, tre giovani studenti tedeschi saranno giustiziati poche ore dopo aver ricevuto la condanna. Una guardiana della prigione, provando compassione per la sorte tragica di queste vite spezzate nel fiore degli anni, li autorizza a vedersi un’ultima volta, prima di essere condotti separatamente al patibolo. L’incontro si svolge senza che nessuna parola venga pronunciata. Tutto sta nell’intensità dello scambio di sguardi. La recitazione è così sottile che si può veder passare tutta la gamma di emozioni possibili. E ciò che domina, non è l’angoscia della loro imminente fine, ma una sorta di profonda serenità, oserei dire come di un sentimento di vittoria sulle avversità. Non l’avversità di un regime che li condanna, neppure quella di uomini che eseguono le sue misere opere, ma una vittoria su sé stessi. Nonostante tutto sono ancora uomini e donne che rimangono in piedi. Non hanno rinnegato i valori su cui si fonda la loro umanità.

Come spettatore, puoi essere travolto dalla tragicità della situazione, per l’ingiustizia di cui è segno lampante, ma, malgrado tutto, è questa sentimento di elevazione e la chiara direzione che mostra, che ti lasciano devastato e allo stesso tempo grato, mentre scorrono i titoli di coda.

È durante i momenti difficili che mi piace riportare alla mente questi comportamenti eroici. Essi mi aiutano ad affrontare la situazione, mi danno l’esempio. Sono fallibile e questo a volte mi ossessiona.

«Poiché le guerre hanno origine nello spirito degli uomini, è nello spirito degli uomini che si debbono innalzare le difese della pace.» Atto costitutivo dell’UNESCO.

Di Pierre Boquié

Tradotto dal francese da Angelica Cucchi