Da quel 1° maggio del 1886, quando a Chicago venne organizzata la grande manifestazione per ottenere la riduzione della giornata lavorativa a otto ore, i diritti dei lavoratori ne hanno fatta di strada. In Italia la dignità dei lavoro ha il sigillo della Costituzione che oltre a sancire il diritto di sciopero, la libertà di organizzazione sindacale, il diritto a un salario sufficiente ad assicurare alla famiglia un’esistenza dignitosa, pone il lavoro addirittura a fondamento della Repubblica. E a livello internazionale, riconoscendo che la mancanza di diritti in una qualsiasi nazione, impedisce la loro affermazione anche nelle altre, nel 1919 venne istituita l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, affinché gli stati concordassero diritti minimi da rispettare ovunque. Così sono state prodotte convenzioni sull’orario di lavoro, sulla protezione della maternità, sul lavoro notturno, sull’età minima di accesso al lavoro, sul salario minimo, sulla libertà sindacale, solo per citarne alcune. Dunque da un punto di vista giuridico l’intelaiatura c’è, ma le rapide trasformazioni economiche e tecnologiche che caratterizzano il nostro tempo, stanno creando situazioni inedite che richiedono risposte inedite.

Un elemento di novità, indotto in parte dal diffondersi dei dispositivi informatici, in parte dalla ricerca di formule produttive sempre più redditizie, è rappresentato dall’emergere di nuovi rapporti di lavoro, così detti parasubordinati, formalmente di tipo autonomo, di fatto subordinato a flessibilità totale. Tipica la posizione dei riders, addetti alla consegna di pizze e altri cibi pronti per conto di piattaforme che fanno da intermediari fra clienti che richiedono un pasto a domicilio e punti di ristoro che possono fornirli. Benvenuti nel mondo della gig economy o delle false partite IVA, il pianeta dei lavoretti che non comprende solo chi pedala in bicicletta, ma anche chi fa babysitteraggio, chi effettua pulizie per camere in affitto, chi svolge lavoro informatico occasionale. Complessivamente si stima che in Italia il pianeta gig economy occupi fra 700mila e un milione di persone, prevalentemente giovani. Eppure di loro non c’è quasi traccia nell’anagrafe dell’Inps, segno che non godono né di versamenti pensionistici, né di alcun tipo di copertura assicurativa. Da un’indagine condotta dall’Inps nel 2018 su 50 imprese di servizi on line (da Bemyeye a Crowdflower, Deliveroo, Moovenda, Prontopro…), si apprende che 22 di esse non hanno posizione contributiva, 17 risultano avere solo lavoratori dipendenti, 11 sia lavoratori dipendenti che collaboratori iscritti alla Gestione Separata. In conclusione, poco più di 2700 lavoratori. Tutti gli altri sono considerati lavoratori autonomi, a cui non è pagato nient’altro che il servizio reso secondo un tariffario stabilito dalla piattaforma. Quindi niente ferie, niente indennità di malattia, niente assicurazione contro gli infortuni, niente versamenti pensionistici. Una mancanza di diritti che va assolutamente sanata per porre fine ai profittatori del terzo millennio.

Un provvedimento legislativo che può aiutare a dare dignità ai lavoratori dipendenti travestiti da partite IVA è l’introduzione di un minimo legale al di sotto del quale nessuna retribuzione può trovare diritto di cittadinanza. Un minimo legale da non intendersi come sostitutivo dei livelli salariali fissati dalla contrattazione collettiva, ma come uno scudo a difesa di chi si trova in una posizione di tale debolezza da dover accettare qualsiasi sopruso. Il tema, caso mai, è come fissare il salario minimo legale. Molti paesi, infatti, dispongono di questo strumento, ma il livello a cui sono attestati è talmente basso da aver fatto del minimo legale non una forma di difesa a protezione dei lavoratori più deboli, ma una forma di sfruttamento legalizzato. La Clean Clothes Campaign, un movimento che da anni fornisce assistenza ai lavoratori dell’abbigliamento a livello globale, ritiene che il criterio giusto per fissare il minimo legale sia quello della vivibilità. Della capacità, cioè, di coprire le spese di base di un nucleo familiare tipo composto da tre persone. Un concetto in linea con l’articolo 23 della Dichiarazione Universale dei diritti umani secondo il quale “Ogni lavoratore ha diritto a una retribuzione equa e in ogni caso sufficiente a garantire a lui e alla sua famiglia un’esistenza dignitosa”. Ed ora che Ursula von der Leyen ha inserito il salario minimo fra gli impegni programmatici della Commissione Europea, sarebbe importante lanciare un dibattito ampio e collettivo per definire insieme i suoi contorni.

L’introduzione di un salario minimo vivibile potrebbe anche servire da stimolo per chi lavora in nero a denunciare la situazione di illegalità in cui si trova. Qualora notasse una differenza importante fra ciò che prende e ciò che fissa la legge, potrebbe essere incentivato a uscire allo scoperto per recuperare ciò che gli è negato dal datore di lavoro. Gli unici esclusi da questa possibilità sono gli extracomunitari irregolari che per lo più troviamo nei campi a sgobbare per 25 euro al giorno. Cifra che diventa fra il sì e il no diciotto  euro, detratta la quota pretesa dal caporale. E la sera, stanchi e avviliti,  si rifugiano in una baracca  costruita con lamiere e avanzi di plastica fra centinaia di altre baracche. Purtroppo molti di loro non possono emergere a causa della condizione di clandestinità in cui sono stati costretti dalla legge stessa. Ad esempio perché è stata cancellata la ragione umanitaria come motivo di protezione internazionale. Ma questa situazione, oltre a fare male a loro, non giova neanche ai lavoratori italiani Sappiamo che l’esistenza di un largo numero di persone disposto a lavorare per salari bassi, tira giù il salario di tutti, e ciò è motivo di ostilità verso gli stranieri. Ma l’unico modo per rimettere gli immigrati in condizione di pretendere salari normali è quello di regolarizzarli. Il che dimostra che i diritti dei lavoratori italiani non si difendono solo attraverso vertenze di categoria, ma anche intervenendo sul governo affinché si mostri più accogliente verso gli stranieri e affinché attui una grande sanatoria che regolarizzi i 600mila clandestini oggi presenti sul nostro territorio. Un tipo di provvedimento assunto altre sette volte negli ultimi 34 anni, permettendo a centinaia di migliaia di persone di emergere dalla clandestinità fino ad avere due milioni e mezzo di lavoratori stranieri regolari che ogni anno contribuiscono all’8% del nostro Pil, versano all’erario 3,3 miliardi di Irpef e consegnano all’INPS 12 miliardi di contributi previdenziali a favore dei nostri pensionati.

E a dimostrazione di come i diritti dei lavoratori spesso si tutelino attraverso azioni indirette, giova ricordare l’effetto della disoccupazione sulla forza contrattuale. E’ noto che l’esistenza di un alto numero di disoccupati indebolisce il movimento dei lavoratori che si presentano ai tavoli delle trattative fragili e ricattabili. Per questo la piena occupazione oltre che obiettivo sociale è anche condizione necessaria per fare avanzare i diritti. Ma se in passato per promuovere la piena occupazione bastava stimolare la crescita indiscriminata degli investimenti, oggi che ci troviamo in piena crisi climatica e ambientale, siamo costretti ad effettuare scelte mirate. Dobbiamo stimolare l’espansione delle energie rinnovabili, dei mezzi di trasporto pubblico, degli imballaggi sostenibili, del riciclaggio dei rifiuti, dell’agricoltura biologica e ridurre la produzione di auto private, di plastica, di cibi confezionati. In una parola dovremo riformare il nostro sistema produttivo in un’ottica di sostenibilità, ma nessuno sa se alla fine il saldo occupazionale sarà positivo o negativo. Del resto è in atto un forte rinnovamento tecnologico orientato alla robotizzazione che rappresenta un altro grande punto interrogativo per l’occupazione. Per cui avrebbe senso riportare in discussione un vecchio progetto che aveva come obiettivo la riduzione dell’orario di lavoro. In tempo di crisi da coronavirus il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti” potrebbe rappresentare un messaggio di speranza per chi teme di essere lasciato indietro.