C’è un posto a Dakar dove le strade sono interamente coperte di sabbia e i bambini girano scalzi lungo piccole vie dipinte di rosa.

È Ngor, villaggio di pescatori lebous.

La spiaggia di questo quartiere popolare, incorniciata dal profilo delle case decadenti dei lebous e di un imponente albergo che porta la firma di Le Corbusier, è un mosaico di culture e colori. Persone del posto indaffarate con la riparazione delle piroghe usate per la pesca e turisti occidentali, surf e bermuda, occupano la piccola baia, esotico mosaico di realtà e prospettive.

Wifi, immigrato guineano dal sorriso sincero, cucina spiedini di carne cercando di venderne il più possibile e sbarcare un lunario decente, mentre Angéline mercanteggia con un custode di ombrelloni per una stuoia in riva al mare. All’ombra di un grande edificio delle Nazioni Unite si trova di che riempirsi lo stomaco e con soli 1000 fcfa (neanche due euro) ci si può procurare qualche minuto di felicità, indiana.

All’interno del villaggio, signore attorniate da bambini regalano profumi di buono che riportano all’infanzia, preparando piatti di thiakry bollente (couscous di miglio) dentro grandi marmitte scaldate su braci di carbone.

Mohamed, il sarto diciannovenne sérèr che una volta mi offrì riparo nella sua piccola sartoria, con una vecchia macchina da cucire ricama le magliette più originali che abbia mai visto. Quante teste pazzesche si celano dietro quattro pareti di lamiera che a momenti cadono a pezzi.

Nel quartiere c’è una strada unica che è un vero e proprio museo a cielo aperto: i muri sembrano aver assorbito le sfumature del sole al tramonto, colorati di rosa e infuocati dai versi di Thomas Sankara e Patrice Lumumba. Questo è forse l’angolo che preferisco di Ngor, sconosciuto alla maggior parte dei senegalesi della capitale.

La bellezza improvvisata del quartiere non riesce però a nascondere la precarietà delle sue fondamenta. Se dovesse scoppiare un incendio sarebbe una catastrofe: le vie sono troppo strette e i pompieri non arriverebbero mai fin qua. È difficile immaginare le possibili conseguenze dell’epidemia di Covid in questo villaggio di pescatori, che ricorda un po’ Venezia e le sue calli, vicoli fatiscenti e consumati dall’acqua salata, affascinanti e malsani contemporaneamente.

Già toccati dalla tubercolosi, cosa farebbero gli abitanti di Ngor se si diffondesse il virus nella loro comunità? Le condizioni igieniche sono deplorevoli, le abitazioni piccole, sovraffollate e la rete fognaria è praticamente inesistente. Rivoli d’acqua nera si riversano direttamente in mare, uscendo da ruderi di cemento che separano il lungo mare dal centro residenziale. In più, non sarebbe per nulla facile costringere in casa decine e decine di persone che per sopravvivere hanno bisogno del mare, della spiaggia, della strada.

Verso sera, prima che entrasse in vigore il coprifuoco, avevo l’abitudine di fermarmi per un bicchiere di ataya (il tè senegalese), il secondo però perché il primo è troppo amaro, accompagnato da una manciata di thiaf (le arachidi tostati). Ma oggi Ngor è cambiata.

L’hotel del celebre architetto francese è diventato un centro dove vengono isolati i casi sospetti di coronavirus e in spiaggia si trovano solamente i lottatori di laamb e qualche bambino lebous, ricoperto di sabbia dalla testa ai piedi. La sera non si sentono più le urla dei taxisti in cerca di clienti e non si possono più assaporare le radici di taro fumanti, condite con un po’ di sale e sempre troppo peperoncino. Mi chiedo dove saranno e di cosa vivranno tutti quegli ambulanti gentili che dalla proclamazione dello stato d’emergenza non possono più occupare le strade con le loro bancarelle.

Mentre mi incammino verso casa, mi soffermo a guardare ancora una volta i grandi baobab che con le loro fronde cariche di frutti sembrano voler proteggere gli abitanti di Ngor, quasi ad abbracciare la città che si prepara per dormire.

Foto e testo: Lucia Michelini