In occasione del 25 aprile, ripubblichiamo questa intervista del 2014, ancora di grande attualità.
La Resistenza viene in genere identificata con la lotta armata partigiana e ben poco si sa dell’enorme contributo dato dagli innumerevoli casi di opposizione al nazi-fascismo che non hanno fatto ricorso alle armi. Il libro di Ercole Ongaro “Resistenza nonviolenta 1943-1945”, Libri Emil-Odoya, Bologna 2013, colma finalmente questa lacuna. Ne parliamo con l’autore.
Da dove è sorta l’idea di questo libro?
Il libro nasce da alcune domande che, come direttore dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza, mi sono posto: quale memoria della Resistenza è fertile per il nostro agire oggi? Cosa c’è di contingente/accidentale e cosa di permanente/essenziale nella Resistenza? E la risposta che ho trovato è che la Resistenza armata appartiene alla sfera del contingente: in quanto c’era allora in corso una guerra mondiale, c’erano eserciti in campo che si combattevano e quindi resistere con le armi era una risposta scontata, contestualizzata. Ma usciti dal secolo XX – secolo delle due guerre mondiali e del fallimento delle rivoluzioni violente da cui ci si attendeva una palingenesi sociale – il cambiamento politico e sociale non può che essere pensato/immaginato attraverso forme di lotta nonviolente. Allora dalla riscoperta delle forme di Resistenza non armata, nonviolenta, può venirci la spinta ideale, l’ispirazione, per il nostro agire nel presente. Si tratta però di una riscoperta che può esplicarsi pienamente se destrutturiamo l’immaginario collettivo che fa identificare la Resistenza con la lotta partigiana, se sostituiamo come categoria interpretativa quella del “resistente”, che è più generale, a quella del partigiano: i partigiani sono resistenti, ma non tutti i resistenti sono partigiani. I resistenti comprendono sia coloro che hanno impugnato le armi (una minoranza) sia coloro che non hanno impugnato le armi (la maggioranza). I due gruppi vanno considerati e valorizzati insieme, senza gerarchizzare gli uni rispetto agli altri, come invece si è fatto in questi decenni.
Quali sono stati a suo giudizio i principali protagonisti della Resistenza nonviolenta?
Il cambiamento di prospettiva interpretativa permette anzitutto di comprendere e valorizzare in modo nuovo la grande partecipazione della popolazione a quella rivolta morale e politica che fu la Resistenza. Protagonisti furono i cittadini, non solo i pochi che avevano acquisito una preparazione politica, ma i molti che dentro il sentimento di abbandono, di disorientamento, dovuto all’assenza di ogni autorità di riferimento, nelle drammatiche giornate seguite all’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943) scelsero di ascoltare la propria coscienza. Una generazione abituata alla sottomissione silenziosa scelse, sorprendentemente, di ascoltare la propria coscienza, il proprio senso di umanità e si aprì alla domanda di aiuto di chi era in pericolo. In quel momento erano in pericolo tre gruppi di persone, che l’occupante nazista voleva catturare e deportare nei lager: i soldati in servizio attivo l’8 settembre, gli ebrei, gli ex prigionieri alleati. Centinaia di migliaia di persone rischiarono la deportazione e la vita per prestare loro aiuto: settecentomila soldati riuscirono a tornare alle loro case (su un milione e mezzo), trentacinquemila ebrei si salvarono (su quarantatremila) e quarantamila ex prigionieri alleati (su ottantamila). Altri protagonisti di forme di Resistenza nonviolenta furono i lavoratori e le lavoratrici che lottarono con gli scioperi, gli internati militari nei lager che non accettarono di servire i nazisti e la Repubblica Sociale Italiana (RSI), i renitenti alla leva della RSI, tutti coloro che si impegnarono per produrre stampa clandestina.
C’è qualche episodio che le sembra particolarmente significativo e ispiratore, come esempio di coraggio e solidarietà?
Ogni azione di aiuto solidale a una delle persone in pericolo, ricercate, era un atto di coraggio, perché le ordinanze dell’occupante nazista e dei fascisti della RSI, rese note spesso con manifesti affissi ai muri, minacciavano arresti, denunce ai Tribunali militari, deportazioni nei lager, fucilazioni. E le minacce non rimasero tali, ebbero quasi sempre esecuzione. Nella mia ricerca sono stato colpito dal coraggio delle donne che hanno conteso a mani nude i propri figli renitenti ai nazifascisti, che hanno cercato di impedire l’esecuzione delle condanne a morte dei partigiani, che hanno sepolto gli uccisi di cui era stata proibita la sepoltura, che hanno aperto le case ai fuggiaschi o ai resistenti prendendosi cura di loro e divenendo a propria volta resistenti.
In un’epoca violenta e crudele come quella attuale c’è un grande bisogno di esempi concreti di lotta nonviolenta, che possano offrire un modello soprattutto alle giovani generazioni. Ciò che racconta nel suo libro potrebbe dare un contributo in questo senso?
Ritengo che apprendere questa ricchezza di partecipazione popolare alla Resistenza, in un tempo così difficile e drammatico come fu il 1943-1945, alimenti la speranza che si può sempre fare molto per cambiare la situazione in cui ci si trova, che arrendersi è sterile e non costruisce il futuro. “Resistere” è una categoria permanente, transtemporale: ogni generazione deve decidere contro chi resistere, per quali valori lottare, quali ideali porre nel proprio orizzonte e verso cui mettersi in cammino.