Intervista a Giuliano Granato, 34 anni, membro del Coordinamento Nazionale di Potere al Popolo e giovane attivista.

Cos’è il reddito di quarantena e quali sono i suoi obiettivi?

Dall’inizio dello scoppio della crisi abbiamo avanzato la rivendicazione di quello che abbiamo denominato ‘reddito di emergenza’, ma al quale altri fanno riferimento come ‘reddito di quarantena’. Ciò che chiediamo è una modifica dell’attuale reddito di cittadinanza in modo che vengano eliminate tutte le restrizioni che ci sono al momento e, che sia allargata la platea in maniera strutturale. Il reddito da noi proposto non è una misura ad hoc e con un tempo limitato, come quella proposta dal Governo, bensì è una misura di carattere strutturale. Sostanzialmente vengono chieste delle modifiche che allarghino le attuali maglie del reddito di cittadinanza. La motivazione che sta alla base della rivendicazione del reddito di emergenza è proprio l’emergenza stessa. Ci sono tantissimi lavoratori che al momento, non sono coperti da ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione, e sono fuori da qualsiasi sostegno da parte dello Stato. Prendendo come esempio Napoli, il settore del turismo si è sviluppato in gran parte sul lavoro in nero, o comunque sul ‘lavoro grigio’. Qualche settimana fa, per esempio, su un giornale cittadino ho letto un’intervista fatta a Scaturchio, una famosissima pasticceria napoletana. In questo articolo, il proprietario si rammaricava del fatto che i suoi dipendenti in cassa integrazione, avrebbero percepito 250/300 euro al mese, in quanto la cassa integrazione prevede l’80% dello stipendio. Facendo due calcoli è possibile capire che si tratta di lavoratori sicuramente part-time, che avevano uno stipendio di circa 400 euro, e conoscendo un pò la situazione della mia città, è probabile che i lavoratori fossero impiegati full time, ma con contratto di mezza giornata, e il resto dello stipendio in nero. La situazione è drammatica e non ne vediamo ancora gli effetti perché siamo in casa attualmente. Non si tratta solo di ventenni che fanno i camerieri nel fine settimana per arrotondare, ma parliamo di persone che lavorano per vivere e quella è la loro unica entrata.

Ci sono poi diverse categorie di lavoratori che non vengono nemmeno citate in nessun provvedimento. Ad esempio i codici Ateco dei lavoratori stagionali aeroportuali, non sono citati in nessuno dei provvedimenti governativi e nemmeno nella maggior parte dei provvedimenti regionali. Prendendo come esempio il Cura Italia, ed in particolare la circolare 49 dell’inps del 30 marzo, prevede che il bonus da 600 euro, che adesso salirà ad 800 euro, vada anche agli stagionali, ma in riferimento agli stagionali del turismo e degli stabilimenti termali. Per cui questi lavoratori stagionali dei trasporti, che solitamente lavorano per 7/8 mesi all’anno, che non sono stati assunti causa pandemia, non hanno diritto a cassa integrazione, non hanno diritto alla NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego), non hanno diritto ad un reddito di cittadinanza e si trovano fuori anche da qualsiasi tipo di provvedimento regionale. Solo la Sardegna ha disposto per questa categoria la possibilità di accedere ad un bonus.

Dunque il reddito di emergenza si configura come una misura immediata e necessaria per alleviare un bisogno attuale.

 A quanto dovrebbe ammontare un reddito di emergenza atto a soddisfare i bisogni primari dell’individuo?

Noi abbiamo discusso in primo luogo sul reddito attuale predisposto dal Governo. Anche su una cifra di 750 euro, che in molti casi non è sufficiente, è previsto uno stanziamento corposo di fondi. Ciò che sosteniamo è che questo provvedimento, sempre mantenendoci sulla cifra dei 750 euro, se c’è la volontà politica, può essere pagato senza andare necessariamente in debito. In realtà noi spingiamo affinché la cifra possa toccare anche i 1000 euro, ma questo è solo uno degli strumenti sui quali si articola la nostra proposta.

Chi dovrebbe beneficiare del reddito di emergenza, e secondo quali criteri?

In primo luogo chiediamo che sia un reddito su base individuale e non familiare, in quanto per alcuni la famiglia è l’embrione positivo della società, mentre per altri può essere una prigione. Secondo noi, un reddito di emergenza su base familiare, considerando i rapporti di genere che ci sono nella nostra società, significherebbe dare un colpo ulteriore alle donne, che in molti casi si vedrebbero costrette a rimanere sotto il tetto domestico per questioni di carattere economico. Non sarebbe una misura universale, ma alla quale poter accedere sulla base del reddito. In Italia parliamo di circa 10 mila miliardi che non sono equamente distribuiti. Se questa cifra fosse distribuita in maniera equa, tra tutti gli italiani, neonati compresi, avremmo 161 mila euro a testa.

La questione del reddito non può essere articolata come misura unica, perché spesso, come ad esempio è accaduto nel mondo anglosassone, l’introduzione di forme di reddito è andata parallelamente alla distruzione del welfare state. Il reddito di emergenza deve essere concepito come una parte di un pacchetto di misure, per cui, al di là del reddito, una rivendicazione chiave deve essere quella della gratuità dei servizi. Ad esempio se un paese ha una sanità totalmente privata, dunque il cittadino deve pagare per ogni cura medica, va da se che nemmeno il reddito universale potrà soddisfare ogni bisogno dell’individuo.

 In che modo può essere finanziato il reddito di emergenza?

Una proposta è quella di predisporre un reddito, anche universale in base alla riorganizzazione di tutti gli ammortizzatori sociali che sono oggi presenti. L’idea è quella di far sparire tutto, dalla cassa integrazione, alla NASpI, e di mantenere soltanto il reddito di emergenza. Gli ammortizzatori sociali sono finanziati in gran parte della fiscalità, e così sarebbe con il reddito che si finanzierebbe dalle stesse tasche. Quello che proponiamo noi, invece, è che il reddito venga finanziato attraverso altri canali. Deve essere una misura aggiuntiva e non alternativa a quelle già esistenti. Tra gli altri canali includiamo: la Chiesa cattolica che dovrebbe restituire 5 miliardi di ICI non pagata tra il 2006 e il 2012, anche secondo una sentenza della Corte Europea; ci sono tutti i beni ecclesiastici, che tra l’altro producono reddito, che quasi sempre sono esenti dal pagamento delle imposte; ci sono le spese militari che ammontano a 22 miliardi all’anno. Non dico che tutte le spese per la difesa debbano essere tagliate, ma ad esempio ogni anno c’è 1 miliardo e 300 milioni di spese relative alle missioni militari all’estero, che potrebbero essere tagliate. La nostra proposta non è una patrimoniale, ma è un’imposta sui redditi, anche se noi immaginiamo una forma di patrimoniale. A Novembre abbiamo lanciato una campagna chiamata ‘Voglio i miei 161 mila euro’, per ribaltare la concezione che ognuno di noi si porta un enorme debito sulle spalle. Mi riferisco anche all’articolo uscito pochi giorni fa sul Sole 24Ore che affermava che ogni italiano con la crisi ha 42 mila e 300 euro di debito sulle spalle. Quello che diciamo noi è: ok avremo anche 42.300 euro di debito, ma se la distribuzione del reddito in questo paese fosse equa ne avremmo 161 mila che ci spetterebbero.

Se ci fosse un’imposta patrimoniale del 10%, sul 10% dei patrimoni più ricchi, ci sarebbe un reddito di circa 400 miliardi. Noi non pensiamo che il reddito di emergenza sia una misura sufficiente, perciò una cosa fondamentale è cercare di immaginare che tipo di società vogliamo per il futuro. Per fare ciò per noi è necessaria la costruzione di una transizione ecologica. Bisognerebbe costituire un’agenzia per la transazione ecologica e le nazionalizzazioni che ci saranno in questo periodo per l’iniezione di liquidità in imprese che sono fallite, andrebbero direzionate per una conversione alla produzione. Se per esempio fallisce la divisione militare della Leonardo, perché dobbiamo salvare un’azienda che produce elicotteri venduti ad Erdogan e usati per la guerra contro i Curdi?

Infine ci sarebbe la questione dell’evasione fiscale, e si parla di cifre che superano più di 120 miliardi all’anno.

Come cambierebbe il mondo del lavoro giovanile con l’introduzione di un reddito di emergenza? Quali sono i rischi e quali i benefici che ne trarrebbe il sistema?

Quando si parla di rischio si fa riferimento a quello che viene spesso presentato ‘dall’altra parte’, ovvero dagli imprenditori. La tesi di fondo è: se io ti do una qualche forma di reddito, tu non lavori e soprattutto tu non accetti un certo tipo di lavoro.

Ad esempio nel mondo del turismo, se un giovane, lavorando in nero prende 30 euro a sera, per fare 8/9 ore di lavoro, e gli viene data la possibilità di starsene a casa percependo la stessa cifra mensile, o anche più di quello che percepiva lavorando in nero, è chiaro che quel giovane si dichiarerà indisponibile a lavorare a quelle condizioni. Non si tratta di una cosa meccanica per la quale io ti do il reddito e tu smetti di lavorare. La questione è sempre quella di avere una cultura anche politica. Io da giovane del sud, quando leggo quegli articoli contro il reddito in quanto sarebbe erogato anche nei confronti dei lavoratori in nero, mi rendo conto che non c’è la reale percezione di quello che è effettivamente il lavoro in nero. Il lavoro nero non è il lavoratore che fa il furbo, ma il lavoratore in questa condizione ci perde soltanto. Dunque una forma di reddito è una forma di giustizia ed è soprattutto una forma di tutela per il lavoratore. Questo può essere messo in pratica solo se alla base persiste una certa visione del mondo veicolata da gruppi e diversi settori sociali.