Intervista a Michele Gianella, coordinatore italiano della Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) per un reddito di base incondizionato.

Quanto si parla di reddito di base in Italia, e in che termini?

I sostenitori italiani del reddito di base arrivano da un lungo periodo di ostilità generale. Per molto tempo, e specialmente da parte della classe dirigente del nostro paese, una garanzia reddituale minima è stata considerata una sorta di lasciapassare per gli scansafatiche. Speravamo che questa concezione potesse mutare gradualmente, con un lento cambio di coscienza; ma la pandemia di Covid-19, e la crisi economica che inevitabilmente seguirà, ha impresso un’accelerazione sorprendente. Basti pensare che persino il Papa si è speso a chiare lettere a difesa di un sostegno minimo al reddito. E non più di una settimana fa, all’interno del Partito Democratico, tradizionalmente molto avverso a misure di questo tipo, il nuovo segretario Nicola Zingaretti e il coordinatore della segreteria Nicola Oddati si sono dichiarati a sostegno di un reddito di base.
È un cambio di marcia tanto più promettente se pensiamo che il PD oggi governa insieme al Movimento 5 Stelle, che nelle scorse elezioni ha fatto del “Reddito di Cittadinanza” (poi implementato, ahimè, in una forma molto lontana dal reddito di base comunemente inteso) la sua politica di bandiera.

Ma esattamente cosa propongono? Un reddito di base incondizionato e universale, o un sostegno limitato alla condizione di crisi che stiamo vivendo in questo momento?

Zingaretti ha parlato di reddito “universale”, Oddati di un reddito “vitale”. Nei giorni scorsi sono uscite a un’intervista a Oddati sul sito del Partito Democratico, e un articolo su Zingaretti ne “Il Manifesto” nelle quali si propone di estendere il c.d. “reddito di cittadinanza” verso un sostegno al reddito universale.

Come queste dichiarazioni di intenti si tradurranno nelle politiche future, è troppo presto per dirlo: non sappiamo l’importo, se sarà temporaneo o permanente, quante e quali condizioni, se ce ne saranno…

Ma la letteratura mostra che anche somme modeste generano effetti potenti nella percezione del rapporto dei cittadini con il proprio Stato. Anche un trasferimento incondizionato modesto e temporaneo rappresenterebbe una novità storica.

Il fatto che due figure apicali di un partito di Governo si dichiarino favorevoli a parlarne, quindi, lo trovo molto incoraggiante a prescindere dei dettagli. La considero un’ufficiale presa d’atto di una misura ormai inevitabile.

Come si potrebbe finanziare un reddito di base incondizionato in Italia?

È una domanda complessa, perché dovremo operare una scelta o una combinazione tra molti modi possibili (e già testati in diversi pilota, nel mondo).

Tanto per cominciare, di fonti di reddito extra lavorative il sistema sociale attuale ne prevede diverse: i sussidi di disoccupazione, le indennità, diversi sgravi fiscali ecc. Esiste una corrente di sostenitori del Reddito di base che prevede di finanziarlo facendole confluire – interamente o in gran parte – in un unico trasferimento incondizionato concesso dalla nascita fino alla morte di ogni individuo.

Pensiamo poi a uno dei padri fondatori del BIEN (Basic Income Earth Network), Philippe Van Parijs, che da anni promuove un Eurodividendo per l’Eurozona impostato a partire dall’IVA.

Altri pensano che una soluzione potrebbe essere una tassa su tutte le transazioni finanziarie che vengono fatte nel mondo. Se fosse possibile prelevare e redistribuire anche una minima quota di queste transazioni, sostengono, sarebbe più che sufficiente a garantire la sopravvivenza, con standard minimi di qualità, ad ognuno di noi.

Troviamo la stessa logica nel “reddito climatico”, finanziato con una tassa sulle emissioni di carbonio, o sulle proposte di “Web Tax”.

Altri ancora recuperano l’idea delle somme di denaro “bollate”, che cioè si riducono se accumulate troppo a lungo, incentivandone così la spesa e la ricircolazione nell’economia. È un’idea concepita nell’Ottocento, ma lo sviluppo informatico di oggi la renderebbe facilmente fattibile.

Altri ancora pensano a un reddito di base pagato dalle criptovalute: ne esistono già diverse che fanno esattamente questo.

Insomma, sul tavolo c’è di tutto. E restano ancora aperte domande fondamentali: dovremmo garantire un importo uguale a tutti, o meglio un uguale potere d’acquisto a tutti, in paesi con livelli dei prezzi diversi? Dovremmo trovare un sistema di finanziamento unico per tutti, o coordinare un patchwork di soluzioni sartoriali locali? Come conciliamo garanzia reddituale a una popolazione e apertura delle frontiere?

Non c’è ancora un consenso su questo. Anche perché – e torno al punto della domanda di prima – non c’è un forte incentivo a capire come farlo, finché non siamo d’accordo sul se farlo. Ma ora che anche le forze politiche più rilevanti mostrano un’apertura, questa conversazione “tecnica” può davvero iniziare.

Perché mai i più ricchi dovrebbero ricevere un reddito di base?

Ciò che apprezzo di questa misura è il patto sociale che sottende: qualunque cosa ti capiti, non ti lasceremo scendere sotto quella soglia sufficiente a vivere. Dunque sì, credo sia giusto dare il reddito di base anche a quei pochi che potrebbero sopravvivere tranquillamente senza… oggi.

Negli ultimi 10 anni, ha potuto sopravvivere senza reddito universale un’ampia classe media; ma la classe media si sta svuotando, la distribuzione dei redditi si sta polarizzando, con una piccola parte che si arricchisce mentre il resto peggiora.

Organizzarsi per pagare a tutti un reddito di base significherebbe agire in modo lungimirante, pensando alla nostra possibile condizione di domani, non solo quella di oggi.

Inoltre, per fare un altro esempio, sono state elaborate versioni di reddito di base, come la “tassa negativa sul reddito”, che affrontano la questione etica per via fiscale: parliamo cioè di una aliquota fiscale che diventa negativa (quindi un’entrata, invece di un prelievo!) sotto una certa soglia di reddito, finanziata dai più ricchi che ne stanno al di sopra. Così un milionario avrebbe formalmente un reddito di base garantito, ma per ogni euro di quel reddito di base, a causa dei suoi milioni di reddito, pagherebbe più di un dollaro di tasse di finanziamento.

È giusto che chi non lavora debba avere un reddito di base?

La mia risposta personale, in breve, è naturalmente sì.

Molte persone sostengono che la vita in società è sostenuta dal lavoro. È una posizione certamente rispettabile, in senso stretto; ma quale lavoro? E il lavoro di chi? Una persona che, per esempio, gestisce un museo, non ha prodotto personalmente le opere d’arte esposte in quel museo. Ci sono dirigenti che portano avanti aziende miliardarie che in realtà non hanno fondato loro. Loro hanno avuto il grande merito di sostenerle, ma non di crearle.

E tutti noi condividiamo qualche tratto di quella condizione. La nostra qualità di vita è in gran parte frutto del lavoro dei nostri predecessori. Quel lavoro ha creato una ricchezza che ci siamo trovati alla nascita, e di cui oggi siamo tutti eredi collettivi.

Poi c’è la questione della riduzione del lavoro fisico a favore della robotica. Questa andrà sempre ad aumentare e ci porterà ad affrontare il problema di persone che non avranno un lavoro, perciò non avranno un reddito, perciò non sosterranno i consumi, perciò non pagheranno le tasse derivanti dalla filiera dei consumi, che perciò non riusciranno a pagare i servizi. E così le strutture più profonde della nostra società, se non si interviene, inizieranno a scricchiolare. Pensate a Elon Musk, che già tre anni fa ha dichiarato: “Penso che in futuro avremo una qualche forma di reddito universale di base. Non so se lo vorrei. Ma penso che sarà necessario.

Riflettiamo poi sul fatto che lo scopo del lavoro è creare un qualche tipo di valore, e negli ultimi anni sta emergendo il fenomeno dei “Bullshit Jobs”, lavori spesso anche ben pagati che non apportano alcun contributo alla società, e rendono profondamente infelice chi si trova a svolgerli. All’antropologo David Graeber, autore del saggio omonimo, un consulente ha riferito di aver lavorato per una banca in cui l’ottanta percento dei suoi sessantamila dipendenti non era necessario. È difficile pensare che non se ne rendessero conto… Sarebbe davvero meno etico dar loro un reddito a prescindere, lasciandoli liberi di impiegare il loro tempo in ciò che ritengono più degno?

Esiste poi un’enorme quantità di lavoro che non viene certificato – e ricompensato come tale. Sarei felice, nei mesi a venire, di sentire sempre più forte la voce della corrente redditista femminista: molte donne svolgono una mole di lavoro domestico che ha un enorme valore economico aggregato: secondo l’osservatorio sul lavoro domestico DOMINA, parliamo di quasi 20 miliardi di euro nel 2018. Un reddito di base implicitamente riconoscerebbe quel valore, remunerandolo.

Inoltre, c’è tutta quella parte di lavoro che l’industria tecnologia ha atomizzato in frammenti così piccoli da non essere nemmeno percepiti come lavoro. Quando andiamo in giro con uno smartphone, ad esempio, forniamo dati di posizione, che vengono aggregati in statistiche e condizionano il traffico o le politiche commerciali. Mentre i nostri comportamenti sulle reti sociali sostengono gli investimenti degli inserzionisti. Ci sono aziende che da questa organizzazione del lavoro estraggono valore per miliardi di euro, nonostante si tratti di lavoro non svolto da loro – e per ora, appunto, non pagato. Ma finché ci limitiamo a concepire il lavoro come “fatica; dalle 9 alle 5; per soldi”, questo cambio di paradigma facilmente ci sfugge.

E per finire… cosa succede alla merce che resta invenduta sugli scaffali dei negozi?
Si cerca di svenderla a prezzi sempre più bassi! Mentre mascherine, amuchina e in alcune nazioni carta igienica oggi costano moltissimo. Siamo noi a creare o distruggere il valore di scambio dei beni e servizi sul mercato, domandandoli o no. E se troviamo accettabile che i manager siano profumatamente pagati per una quota del valore che aggiungono alle loro aziende, per coerenza, alcuni sostengono, dovremmo pagare i cittadini di una società per il valore dei beni e servizi della loro economia. Perché il valore di quei beni e servizi è stato aggiunto da loro, domandandoli.

Mettete insieme tutto questo, e capirete perché alcuni teorici (come il Basic Income Network Italia) vanno oltre e argomentano che tutti noi meritiamo un reddito di base come remunerazione di un valore già creato.

E come garanzia di un diritto all’esistenza in un’organizzazione economica che ormai estrae valore da ogni istante della nostra vita.

Cosa sarebbe cambiato, se avessimo avuto un reddito di base in una situazione di emergenza come questa del CoVid19?

Molto. Una delle conseguenze più facilmente prevedibili, visto l’inarrestabile progresso tecnologico, è che avremmo una società che tendenzialmente accoglie l’automazione, invece di resisterle. Se ci fosse un reddito di base vitale e incondizionato già oggi, magari finanziato con gli aumenti della produttività della tecnologia, molte più persone potrebbero permettersi di sospendere l’attività lavorativa, mentre i robot lavorano e producono ricchezza, redistribuita in reddito, senza temere per la propria sorte. Ci sarebbero meno ansie, meno tensioni sociali, meno costi di mantenimento dell’ordine pubblico; e queste risorse liberate potrebbero essere a loro volta allocate in modo più funzionale, come la ricerca scientifica o la medicina preventiva.

Sarebbe un “lubrificante”, insomma, che farebbe funzionare la società sicuramente meglio di adesso.