Difesa della cultura cristiana, della struttura familiare “naturale” (composta da un padre e una madre), e delle comunità nazionali, presentate come un elemento vivo ed organico: questo il contenuto dell’intervento del premier ungherese Viktor Orbán dal palco del Várkert bazar, sede del Demographic Summit ospitato lo scorso 5 settembre per la terza volta nella capitale magiara in cinque anni. Un appuntamento di grande importanza per il leader ungherese, occasione per vantare il crescente interesse internazionale sul tema, testimoniato dalla presenza alla kermesse di ospiti internazionali, quali il premier ceco Andrej Babiš, il presidente serbo Aleksandar Vučić e il primo ministro australiano Scott Morrison. Una dimostrazione – secondo Orbán – dell’emergere di un’intesa contro le politiche continentali, che vedono nell’immigrazione, uno strumento per contrastare il calo demografico, vera e propria anticamera della scomparsa delle “comunità nazionali”.

Una retorica piuttosto comune per chi è abituato a seguire i discorsi del premier magiaro, che presenta nette continuità con i due interventi effettuati nelle edizioni precedenti del summit (2015-2017), ma che si inserisce in un contesto internazionale diverso.

Ascesa e declino?

Durante il primo appuntamento (2015) Orbán parlava come il leader di una fronda interna all’UE, membro più noto del gruppo di Visegrád, in netta contrapposizione all’apertura tedesca nei confronti dei migranti. Una posizione che aveva consacrato la sua caratura europea, sebbene le reazioni continentali alla sua politica fossero state piuttosto negative. Durante il suo discorso il primo ministro ungherese, pur tralasciando temi di alta politica, lanciava nel finale un vero guanto di sfida all’Unione Europea, contro l’idea che l’immigrazione potesse essere una risorsa per contrastare il calo demografico.

Nel 2017 la situazione era completamente capovolta: non solo Orbán poteva sfruttare un crescente sentimento di ostilità alle politiche pro-immigrazione in tutto il continente, ma i recenti attacchi terroristici gli permettevano di sottolineare la connessione fra i due fenomeni. Il leader ungherese, ormai noto sullo scenario europeo, elencava gli incidenti di Parigi, Bruxelles, Berlino e Manchester, chiarendo che la stessa UE avesse bisogno di un cambio di passo, vantando i meriti della sua politica identitaria. Orbán sembrava essere destinato a ritagliarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere continentale, ponendosi come leader capace di imprimere una diversa impronta al PPE. Una scommessa ambiziosa, persa con le elezioni europee (2019).

Ma oltre la retorica?

Incassata la sconfitta di maggio, il leader magiaro sembra alla ricerca di nuovi alleati, e questo spiega il rapporto privilegiato che lo lega ora con la Serbia. Ma mentre il suo partito è ancora sospeso dal PPE, anche i tanto vantati incentivi all’incremento demografico ungheresi non hanno prodotto alcun risultato. Colpa forse dell’aborto, come ha suggerito durante lo stesso summit il presidente del Parlamento László Kövér, autore di recente di una controversa affermazione, secondo la quale non è un buon ungherese chi parla bene la lingua, ma chi può invece vantare almeno tre o quattro figli (e magari nove-sedici nipoti), ma forse la risposta risiede altrove. Più probabilmente, gli incentivi magiari sono semplicemente inefficaci: la maggior parte di questi è concentrata dopo la nascita del terzo figlio, escludendo la gran parte delle famiglie ungheresi. Ma in secondo luogo, c’è un altro problema: la fortissima emigrazione che ha portato secondo le statistiche Eurostat quasi 300.000 ungheresi ad abbandonare il paese fra il 2008 e il 2017. Una grave emorragia di forza lavoro, spesso qualificata e di giovane età, che acuisce il vuoto demografico e la mancanza di quadri preparati, specie nella sanità.

E chi lo spiega ai giovani dottori, ingegneri e professionisti formati nelle università magiare che devono rimanere in Ungheria, stringendo la cinghia fino al terzo attesissimo figlio, in nome della “comunità nazionale”?

 

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