In Sud Sudan il numero di bambini-soldato è in aumento, nonostante gli sforzi per arrivare a un governo unitario di transizione entro il 12 novembre. Lo ha denunciato questo mese un rapporto dell’Onu, che stima intorno a 19.000 il numero di minori che hanno imbracciato le armi, costretti dai gruppi armati o dalla fame. “Ad approfittare di questa situazione sono i broker, gente vicina al governo che fa affari con le corporation straniere, come le società petrolifere basate in Cina, Malesia, India e Olanda, o ancora in Nigeria, come la Sahara Group, e in Libano”, ha denunciato in un’intervista alla Dire Jok Madut Jok, antropologo e fondatore del gruppo di ricerca Sudd institute.

Jok, a Napoli questa settimana nell’ambito del festival di giornalismo civile ‘Imbavagliati’, è stato sottosegretario alla Cultura del Sud Sudan tra 2011 e 2013. Poi ha lasciato il governo, dove era diventato una figura scomoda. “Tutte queste corporation fanno accordi attraverso persone che hanno accesso alle alte sfere o che hanno esse stesse il potere di stipulare contratti” denuncia nell’intervista. “Ottengono grandi benefici proprio a causa della mancanza di politiche coerenti, del caos. Se la situazione fosse più ordinata non
potrebbero: così i proventi che derivano da una situazione di conflitto sono riciclati nella guerra. Il disordine è per alcuni un’opportunità di profitto”.

I bambini si arruolano per fame, ma anche perchè credono di poter soddisfare da soli il loro bisogno di sicurezza: “Se c’è un attacco nei loro villaggi, questi ragazzi, soprattutto i ragazzi, sentono che è importante arruolarsi per ottenere una pistola e proteggersi”. In Sud Sudan 2,2 milioni di bambini non frequentano la scuola, secondo l’Unicef, mentre circa il 30%
delle scuole sono danneggiate o inagibili.

A guadagnare da questa situazione, sottolinea Jok, sono “anche produttori e venditori di armi europei, americani e cinesi. Queste persone hanno bisogno di vendere, e senza guerre non potrebbero”. La guerra vede contrapposte le forze vicine al governo di Salva Kiir, di etnia dinka, e quelle dei ribelli guidati dall’ex vice-presidente Riek Machar, della comunità nuer. Dopo cinque anni e circa 400mila vittime, i due schieramenti hanno annunciato che formeranno un governo di unità nazionale. Ma niente cambierà, secondo Jok, se non verrà sconfitta la corruzione: “Penso che il conflitto si fermerà solo quando ci sarà una divisione netta tra i militari e il mondo degli affari, ma non credo che ci sarà presto”.

In Sud Sudan, un recente sondaggio parla di una percezione della corruzione intorno al 98%. Una ricerca del Sudd Institute ha posto l’attenzione sull’importanza di attuare le leggi sulla trasparenza già esistenti nel Paese, in particolare rispetto alla diffusione dei dati sul settore petrolifero. “Il governo dovrebbe sostenere i media nella pubblicazione e nell’analisi di informazioni sul petrolio, per promuovere maggiore trasparenza”, hanno scritto i ricercatori. Al momento la realtà è però ben lontana da queste raccomandazioni: nel 2015 Salva Kiir criticò pubblicamente i giornalisti, accusandoli di essere “contro il Paese”. In seguito, ne furono uccisi sette.

 

L’articolo originale può essere letto qui