Ho sentito parlare per la prima volta del Grand Hotel, a Beira, un anno fa. Mi trovavo a cena con un amico, capo progetto di MSF, appena tornato dal suo ultimo viaggio in Sierra Leone. Io invece stavo per partire per il Mozambico, dove lui aveva trascorso due anni della propria vita. “Vacci, vacci assolutamente!”, mi diceva. Parlava del Grand Hotel, a Beira.

L’hotel è stato inaugurato nel 1955 ma è stato popolato per poco tempo da turisti, trasformandosi in centro di comando dei diversi gruppi armati che si fronteggiarono durante la guerra civile. Nel 1992 è stato occupato da un migliaio di persone, in primo luogo profughi che fuggivano dalle zone di conflitto.

Dalla sua inaugurazione al giorno della sua chiusura ufficiale nel 1963, l’hotel non era mai stato così vivo.

Nei pochissimi anni di attività ufficiale, l’hotel era vuoto, perché la città di Beira non è mai stata considerata una città turistica, quanto piuttosto un luogo di passaggio della maggior parte delle merci che dai paesi all’interno devono arrivare all’Oceano Indiano.

Oggi marmi e stucchi sono stati sostituiti da murales e scritte su muri anneriti dai fuochi accesi per scaldarsi e cucinare, le trombe degli ascensori e i cortili interni riempiti di rifiuti accumulati negli anni. Una decadenza piena di vita, in contrasto con l’immagine lussuosa disegnata dagli architetti che lo costruirono.

Vado a Beira pochi giorni dopo il ciclone Idai per documentare il disastro e l’epidemia di colera che MSF e altre organizzazioni umanitarie cercano di combattere. In questo corridoio che unisce la città portuale allo Zimbabwe e al Malawi, il ciclone si è abbattuto con una forza incredibile, allagando le colture, scoperchiando case, sradicando alberi e interrompendo i collegamenti per molti giorni.

Dopo solo un giorno in città ho l’occasione di recarmi al Grand Hotel, che si trova a poche centinaia di metri da dove MSF coordina le operazioni per tenere a bada un’epidemia di colera che rischia di fare molte vittime in poche ore.

Qui il colera è endemico, e buona parte della città è stata coperta da acqua e fango. Molte persone, ormai senza un tetto, bevono l’acqua e si ammalano.

Accompagno Giulia, lei lavora come promotrice della salute e vuole capire com’è la situazione dentro il Grand Hotel dopo il ciclone, che ancora una volta nella sua lunga storia, è rifugio per chi è rimasto senza una casa.

Attraversiamo un piazzale pieno di persone tra i banchi che ospitano la poca frutta che si riesce a trovare, si aprono davanti a noi due grandi scale che, a semicerchio, portano verso la sontuosa entrata e avvolgono la scala centrale delineata da enormi colonne. Non è difficile da qui scorgere il sogno di chi l’ha costruito: i tappeti rossi, le luci ad illuminare le palme alte e sottili, le macchine che si fermano e lasciano scendere dame avvolte da vestiti eleganti, accompagnate da uomini in frac.

Ma è proprio questo ingresso sontuoso e nascosto a dare la chiave di lettura di questo gigantesco paradosso: serve avvicinarsi per lasciarsi avvolgere, per scorgere un mondo decadente e nascosto, ma pieno di vita, rifugio degli ultimi.

Giulia incontra un gruppo di catorzinhas, giovani ragazze che spesso sono costrette a prostituirsi per sopravvivere. Loro sono tra le beneficiarie degli interventi di MSF qui a Beira, che da molto prima del ciclone si occupa della loro salute e di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, soprattutto l’HIV, che in questa regione ha un’incidenza altissima, e colpisce quasi il 20 per cento della popolazione.

Incontriamo Minore, 18 anni, una figlia morta improvvisamente poco più di un anno fa. “Sono costretta a dormire con gli uomini per sopravvivere”, mi dice. “A volte mi pagano con i soldi, altre volte con cibo o vestiti”.

Insieme a lei c’è Vanessa, 17 anni, partorirà tra un mese. Indossa un lungo vestito rosso, si mette in posa nella grande hall dell’hotel. Ci dice che lei, qui al grand hotel ci è nata, come quasi tutte le sue amiche. È destino comune di molte delle ragazze che incontriamo quello di venire abbandonate dai compagni, per ritrovarsi sole a dover sostentare la famiglia come possono.

Prendiamo le scale che salgono ai piani superiori, nei larghi corridoi le persone hanno costruito baracche di legno e lamiera che fungono da abitazione e negozio. Un barbiere, un piccolo ristoro costituito da una brace accesa, un banco dove si vende pesce e frutta.

Con noi anche Anja, esperta di acqua e impianti idraulici. È il suo ultimo giorno prima della partenza, e vuole portare alcuni libri a Manuel Antonio. Lo ha conosciuto qui pochi giorni prima.

Lo troviamo nella parte più vicina ad una delle grandi finestre che affaccia sul giardino e sull’enorme piscina a pochi metri dalla spiaggia. Vive seduto su un tappeto da 19 anni, da quando durante la guerra civile è saltato su una mina che gli ha immobilizzato una gamba e portato via parte del naso.

Ha 59 anni e vive circondato da libri, dice che solo così può viaggiare: è il simbolo del Grand Hotel, radicato con le sue persone tra le macerie come le enormi piante di fico, che si fanno spazio tra il cemento e i rifiuti.

Continuiamo a salire verso la terrazza, mi dicono che da lì la vista sia incredibile. Da un lato l’oceano e l’enorme piscina olimpionica in cui sono rimaste intrappolate decine di pesci, probabilmente a causa della violenza del ciclone. Alcune donne stanno lavando panni e bambini in quell’acqua dal colore poco rassicurante, Dall’altra parte l’estuario dei fiumi Pungwe e Buzi, che qui si baciano, poco prima di sfociare nell’Oceano Indiano.

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