Il 20 agosto saranno 9 mesi dalla sparizione della giovane cooperante italiana in un villaggio a 80 chilometri da Malindi. Nino Sergi (Intersos): “Il silenzio stampa occorre, però, a nostro avviso, anche che forme di pressione e controllo continuino comunque ad essere esercitate sulle istituzioni preposte alla soluzione dei sequestri”.

Sono passati nove mesi dal quel 20 novembre del 2018 quanto Silvia Romano è stata rapita a Chakama, villaggio del Kenya a 80 chilometri da Malindi. In quella data la giovane volontaria italiana è stata sottratta alle sue attività umanitaria. Silvia Romano inseguiva un sogno, maturato qui in Italia, e diventando realtà in Kenya dove si è impegnata laddove i bisogni sono più urgenti, con una attenzione ai più deboli. Di lei non si sa più nulla. Le autorità competenti italiane continuano a ribadire che il silenzio di questi mesi non deve ingannare, non deve far pensare che le autorità non si muovano, perché le attività di ricerca e di indagine continuano.

Eppure da molti parti si levano voci – dall’opinione pubblica alla società civile – affinché si apra qualche squarcio di speranza. E tra le tanti voci, che anche in questi giorni si sono fatte sentire, vogliamo sottolineare quella di Nino Sergi, presidente onorario e fondatore di Intersos, una organizzazione umanitaria che opera nei contesti di crisi. Il presidente di Intersos ha fatto sentire la sua voce inviando una lettera aperta al generale Luciano Carta, responsabile dell’Aise, il servizio di intelligence estero.

“Sono passati ormai 9 mesi e di Silvia Romano non abbiamo alcuna certezza – scrive Sergi – Siamo convinti che lo Stato, ed in particolare l’Agenzia da lei diretta e l’unità di crisi della Farnesina, stiate facendo il possibile per la sua ricerca e liberazione, così come per altre persone italiane rapite nel mondo, nella riservatezza che deve in ogni caso essere mantenuta”.

E dopo questa premessa il presidente onorario di Intersos chiede al generale Carta di “rafforzare ulteriormente l’impegno della sua Agenzia affinché siano accelerate, per quanto possibile e in sicurezza, le azioni che riteniamo stiate mettendo a punto per la sua liberazione”. A Sergi, innanzitutto sta a cuore la liberazione della giovane volontaria italiana, ma la sua richiesta di “rafforzamento dell’impegno” – e di rottura del silenzio – delle autorità italiane ha anche un’altra valenza, che lui spiega nella sua lettera aperta: “Anche per fermare scomposte dicerie e iniziative di disturbo che potrebbero ulteriormente complicare la situazione. Siamo infatti preoccupati dei rischi che possono aumentare con il passare dei giorni”.

Parole, quelle di Sergi, apparentemente pacate, ma che hanno un valore forte e autorevole proprio perché lui e la sua organizzazione sono stati vittime nel passato di sequestri di loro operatori. Basta andare a rileggere la relazione che il presidente di Intersos ha tenuto, ormai quasi 10 anni fa, ma ancora attualissima, sui sequestri di persona al seminario sulla sicurezza, a margine della conferenza degli Ambasciatori alla Farnesina. In quella relazione Sergi sottolineava la necessità di una “stretta sinergia – ovviamente senza confusione di ruoli – tra più soggetti: noi Ong, con la conoscenza del paese (dove avvengono i sequestri, ndr) l’Unità di crisi del Mae (e per suo tramite l’Ambasciata, il Ministero, la Presidenza del consiglio), l’Agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna, Aise” E poi, sempre nella stessa relazione si dedicava all’informazione, ai media. “Il dovere di informare – spiega – e il dovere di contribuire all’integrità della vita e alla liberazione delle persone non possono essere scissi. Il riserbo e la prudenza andrebbero presi come regola generale nel caso dei sequestri di persona. Non è necessario uno specifico codice etico: basta il buon senso e la creazione di un dialogo basato sull’ascolto e sulla fiducia reciproci tra media e istituzioni”.

Per il presidente onorario di Intersos, tutto ciò non significa mettere il bavaglio alla stampa, ma con “il silenzio stampa occorre però, a nostro avviso, anche che forme di pressione e controllo continuino comunque ad essere esercitate sulle istituzioni preposte alla soluzione dei sequestri”.

E in questo contesto si capiscono molto bene le parole che Sergi rivolge al generale Carta nella sua lettera aperta, che si conclude così: “In tanti, Signor Generale, stiamo aspettando il ritorno di Silvia Romano. Aiutateci a riaverla presto, il prima possibile. Grazie per l’attenzione che darà a questa lettera”.

Intanto lunedì inizierà anche il processo a Ibrahim Adan Omar, uno dei tre arrestati dalla polizia keniana e membro del commando di 8 persone – secondo gli inquirenti – che hanno messo in atto il sequestro della giovane volontaria italiana. L’uomo al momento dell’arresto è stato trovato in possesso di un fucile mitragliatore Ak 47 e di numerose munizioni.

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