A Giorgio Nebbia, recentemente scomparso. Figura preziosa come presenza umana, intellettuale e politica della sinistra italiana. Ambientalista rigoroso e comunista, la giustizia sociale e la giustizia ambientale come pensiero vissuto. A lui la nostra gratitudine per averci aiutato negli anni decisivi della formazione culturale e politica.

Il prossimo 29 luglio è il cosiddetto Overshoot Day (*) il Giorno del Superamento-Supesfruttamento. Vale a dire, della possibilità del pianeta terra di rigenerare-ripristinare l’equilibrio delle risorse a causa del consumo-emissione di CO2-inquinamento-rifiuti ecc. su scala mondiale. Questa misura è calcolata ogni anno dalla benemerita Rete mondiale dell’Impronta Ecologica (Global Footprint Network). Nel 1970 il giorno era il 31 dicembre. Il saldo allora era a somma zero. Oggi per 5 mesi e qualche giorno deprediamo letteralmente la terra. Da sommare alle depredazioni degli anni precedenti. L’accumulazione del capitale e l’accumulazione della violenza ambientale, sul vivente.

Naturalmente, con la gerarchia mondiale di questo furto. Gli Usa (328 milioni di abitanti) avrebbero bisogno di 5 pianeti a questo ritmo dell’impronta ecologica dei suoi abitanti. La Cina 2,2 pianeti (ma 1 miliardo e 420 milioni di abitanti) e l’India 0,7 (ma 1 miliardo e 370 milioni di abitanti) e via scalando nella popolazione mondiale delle periferie del mondo. Inoltre è annunciato per il prossimo agosto 2019 il nuovo rapporto dello Ipcc (gruppo di lavoro intergovernativo di scienziati del clima sul cambiamento climatico, legato all’Onu ). Ma basta lo Special Report del 2018 per allarmarci. Siamo già dentro a processi irreversibili.

Per l’occasione, anticipo qui di seguito alcune parti dell’ultimo capitolo di un libro scritto con Massimiliano Lepratti sulla “storia globale dell’umanità”, in attesa di pubblicazione. È una sintesi di circa 350 pagine scritta per un pubblico largo, senza pretese specialistiche, ma con l’intento di contribuire a una battaglia culturale importante, con riferimenti bibliografici minimi. Facendo tesoro della lezione di Samir Amin, della critica radicale dell’eurocentrismo e dell’occidentalocentrismo, secondo l’impostazione del sistema-mondo dello storico francese Fernand Braudel ecc.

Nel capitalismo “tutto si tiene”. Il fine è sempre quello di tenere assieme giustizia sociale (e di genere) e giustizia ambientale. Non sovrapposte, disgiungibili, bensì fuse, contestuali, della stessa sostanza (consustanziali, qualcuno direbbe). Dopo di che, il difficile è quale militanza, quale azione politica e sociale farne scaturire. Tutti i problemi che rimangono entro una sinistra decente (alternativa ecc.) in questa epoca storica.

 

       1.    Il disastro ambientale e sociale di Bhopal. Il “bianco” a New York e i “neri” in India

Nella notte del 3 dicembre 1984 a Bhopal, in India, si verificò il più grande incidente industriale della storia, a parte l’incidente della centrale nucleare di Chernobyl (Urss) del 1986. Un’esplosione nell’impianto chimico della Union Carbide liberò nell’aria una enorme nube gassosa di una sostanza velenosa. La nube colpì soprattutto la bidonville di Bhopal, circa mezzo milione di persone. Nell’immediato morirono tra le 2.000 e le 8.000 persone. Più di 10.000 in seguito, nei giorni e mesi successivi, e circa 120.000 hanno tuttora bisogno di cure mediche. Ancora oggi nascono bambini con malformazioni e malattie genetiche.

Le cifre sono approssimative. Solo associazioni di volontariato e organizzazioni non governative si sono impegnate per fare luce sulle conseguenze dell’incidente. Naturalmente la multinazionale Usa Union Carbide e il governo locale del Mandhya Pradesh, e men che meno il governo centrale indiano, non avevano interesse a rivelare le cifre esatte. In quella fabbrica si produceva l’isocianato di metile, un componente chimico che serviva per ottenere un insetticida usato in agricoltura.

La Union Carbide aveva sede legale e uffici a New York. Solo grazie alla mobilitazione popolare dei lavoratori sopravvissuti, ai sindacati indiani e alle associazioni di solidarietà fu intrapresa una causa legale contro la multinazionale e contro i managers locali della filiale indiana.

Il presidente e amministratore delegato Usa Warren Anderson non si è mai presentato al processo in India. Solo nel 2009 il governo indiano ha chiesto agli Usa la sua estradizione. Nel 2014 Anderson è morto, di morte naturale, a casa sua. Nel 2010 i managers indiani sono stati condannati a due anni di carcere e a circa 2.000 dollari di multa. Sono stati scarcerati dietro cauzione di 500 dollari. E comunque hanno fatto appello.

500 dollari e Warren Anderson latitante di lusso di contro a una montagna di morti, di continui patimenti, di dolori e di malattie per uomini, donne e bambini colpiti dalla nube tossica e non morti subito. Non sono “contabilizzati” i morti di tubercolosi e di altre malattie, come molte forme di cancro, a causa del crollo del sistema immunitario che quella contaminazione fisiologicamente provoca.

Bhopal è il simbolo sinistro del “malsviluppo”, di cui trattiamo in questo capitolo. Dell’iniqua distribuzione del potere mondiale tra profitti da una parte e sacrifici e fatica dall’altra. Anche quando nelle periferie del mondo lo “sviluppo” quantitativo, nozione tipicamente occidentale, apporta indubbi benefici per le popolazioni locali.

È il simbolo sinistro del perverso rapporto uomo-natura e del perverso rapporto produzione-ambiente. L’area del vasto territorio indiano contaminato dall’agente chimico non è mai stata bonificata. La natura non è “contabilizzata” nel cosiddetto “calcolo economico”. La “economia” non tiene conto della “ecologia”.

 

          2. La concezione distorta dello sviluppo umano e il Titanic della crisi ambientale globale

[…] lo sviluppo del sistema mondiale capitalistico ha egemonizzato l’intera traiettoria storica fino a oggi e ha occupato ogni angolo del pianeta. La concezione che ha accompagnato questi processi è una sorta di prometeismo e di fiducia infinita nelle capacità umane di trasformare, di agire sulla natura e sull’ambiente e di trarre sempre più cose (i prodotti, le merci) per il proprio consumo, per il proprio benessere.

Una precisa visione del mondo ha dominato fino a oggi. È il progresso lineare infinito e il pianeta considerato alla stregua di un “fondo” inesauribile, a cui attingere liberamente.

Questo sviluppo quantitativo e la crescita economica infinita non hanno tenuto in debito conto un altro tipo di sviluppo, quello “qualitativo”. Sviluppo per ottenere cose o invece sviluppo del genere umano? È sempre questo il dilemma.

Questo modello di sviluppo che denominiamo “malsviluppo” ha generato colonizzazione e sfruttamento di aree del pianeta a beneficio di altre regioni del mondo, sempre più sfruttamento di lavoratrici e di lavoratori, sempre più sfruttamento dell’ambiente che ci ospita. Fino alla messa in pericolo dell’esistenza stessa del pianeta che ci ospita e del genere umano di cui facciamo parte. Come potrebbe accadere nel caso in cui la temperatura globale del pianeta nel 2100 risultasse di oltre 2 gradi Celsius superiore a quella dell’era preindustriale.

Come auspicato da correnti e movimenti attivi nel mondo per cercare soluzioni razionali e fattibili a questo malsviluppo e alla crisi climatica e ambientale, e come la realtà storica manifestamente suggerisce, occorre passare dal cosiddetto “antropocentrismo”, spesso improntato alla diseguaglianza, al biocentrismo egualitario. Occorre passare dalla concezione distorta dello “uomo” come centro e fine della realtà alla concezione armoniosa della “vita”, del “vivente” (in greco, bios), alla possibile alleanza solidale tra esseri umani tra loro e tra esseri umani e natura.

In questa concezione armoniosa possono e debbono concorrere sviluppi culturali e politici diversi. Da quelli tipicamente occidentali, come l’umanesimo e l’illuminismo e le correnti democratiche, socialiste e solidali, dalla rivoluzione francese in avanti, e le millenarie culture umane dei vari continenti, spesso espresse da “valori religiosi”, da “valori sacri”, che queste culture fanno valere per assicurasi questa vita, in armonia con se stessi e con la realtà che li circonda.

 

       3.    Il malsviluppo nella storia e nella realtà contemporanea

Avevamo descritto la storia della nascita della borghesia e del capitalismo come passaggio all’economia-mondo. Una sorta di straordinaria accelerazione dei ritmi umani e della natura è stata impressa al pianeta.

Questa velocità ha dato indubbi risultati. Ha consentito di debellare epidemie, malattie, di debellare la fame in alcune aree del mondo, di aumentare la popolazione mondiale. Ma ha al contempo aggravato le condizioni di vita in alcune aree del mondo.

Per ordinare e semplificare, procediamo per punti.

A. La rivoluzione industriale costituisce un punto di svolta. Tra il 1800 e il 2000, in soli due secoli quindi, la popolazione mondiale si è moltiplicata per 6 (da quasi 1 miliardo a quasi 6 miliardi di persone). Così, moltiplicata per 6, anche la produzione e il consumo. Ma il divario Nord-Sud è un baratro aperto in questi due secoli. Mentre per le periferie del mondo la variazione è stata minima, per il Nord del mondo la produzione e la disponibilità materiale di beni e servizi si è moltiplicata per 20. Sono sempre dati medi generali e quindi non tengono conto delle differenze, anche enormi, entro la realtà che questi dati descrivono.

Il solito e banale esempio per comprendere. Dire che il consumo medio di una data popolazione è di mezzo pollo a testa occulta sovente il fatto che magari una persona ne mangia uno intero e un’altra non ne mangia affatto. E non avendo altro a disposizione forse muore, anche se la statistica dice che ha mangiato mezzo pollo.

B. Oltre alla rapina pura e semplice di risorse, il modello di sviluppo imposto dal sistema mondiale dominante ha seguito le linee che abbiamo anticipato in un capitolo precedente. Il sistema ha imposto che alcune aree del mondo producessero alimenti e beni destinati al consumo del Nord del mondo. Beni per l’esportazione (“sviluppo extravertito”) e non per il proprio consumo (“sviluppo autocentrato”). Da qui anche una delle cause della “fame endemica e sistemica”, che non si riesce a estirpare nel mondo, malgrado i mezzi contemporanei a disposizione dell’umanità. Diversa dalla fame, vasta e terribile comunque, ma non permanente, delle epoche precedenti e in varie aree del mondo a causa di guerre, siccità, calamità ecc.

C. Al “debito coloniale”, la rivendicazione di un qualche risarcimento che i popoli colonizzati esigono dai colonizzatori, per le risorse sottratte, per la rapina, per lo schiavismo, per lo sviluppo possibile bloccato ecc., si è aggiunto il “debito ecologico”. Quest’ultimo importantissimo nella considerazione della nozione di “malsviluppo”.

Per esempio, le giuste misure avanzate per fermare l’emissione di gas serra, valide invariabilmente e uniformemente per tutti i paesi del mondo, non tengono conto del fatto che per due secoli i paesi del Nord hanno bruciato enormi quantità di energie fossili (carbone, petrolio, gas) per il loro sviluppo. Per la produzione (fabbriche, siderurgia ecc.), per i mezzi di trasporto, per le automobili, per il riscaldamento ecc.

Ora, conformemente a quelle misure, si esige che anche i paesi del Sud non emettano gas serra, inibendo così il loro attuale e futuro “sviluppo” sul modello occidentale (i casi tipici dell’India, della Cina, del Brasile ecc.). La rivendicazione è che si tenga conto di questo “debito ecologico” poiché la quasi totalità del gas serra esistente nella stratosfera terrestre è dovuta a due secoli di uso predatorio e indiscriminato delle risorse e dell’ambiente da parte dei paesi industrializzati del Nord del mondo.

Infine, i rifiuti tossici del Nord del mondo spesso vengono scaricati e smaltiti nei paesi del Sud del mondo.

D. […] Un’altra considerazione da fare è che il 60% del consumo energetico mondiale è dovuto alla produzione dei 4 cereali fondamentali dell’alimentazione umana mondiale. I cereali in questione sono considerati strategici e sono mais, grano, riso, soia (anche se quest’ultima è propriamente una leguminosa).

Questi cereali vengono prodotti soprattutto in alcune aree del mondo (le principali, Stati Uniti, Brasile, Russia, Ucraina e Kazakistan). Già si parla per il futuro della cosiddetta “arma del cibo”. Il monopolio o l’oligopolio del cibo come arma a disposizione di qualche paese contro altri paesi. Da qui la nozione della “sicurezza alimentare” che taluni paesi cercano di raggiungere per non soggiacere al ricatto di detta arma.

Nel Sud del mondo i cereali dovrebbero sfamare la popolazione e non essere destinati all’alimentazione animale per carne, latte, uova ecc., mentre al Nord questi cereali servono meno per l’alimentazione della popolazione e molto più per l’allevamento animale. Ricordando sempre che per ottenere 1 chilogrammo di carne bovina occorrono circa 10 kg. di cereali (un po’ meno la soia, più proteica essendo una leguminosa).

Gli allevamenti intensivi di animali, soprattutto quelli di maiali, a causa delle loro deiezioni (urine, feci ecc.), liberano nell’atmosfera enormi quantità di gas. Soprattutto di gas metano, responsabile quest’ultimo della riduzione dello strato di ozono nella stratosfera. L’ozono funge da schermo o filtro per la terra delle pericolose radiazioni solari.

E. L’agricoltura, sede primaria dello sviluppo dell’umanità, dalla rivoluzione industriale in avanti è stata sacrificata a vantaggio delle industrie. Nel secondo dopoguerra si è predicata e propagandata la cosiddetta “rivoluzione verde”. Un modello elaborato nel Nord e proposto al Sud del mondo. L’India è stato il laboratorio principale di questa modalità. Si trattava di fare un’agricoltura con intenso uso delle macchine e delle sostanze chimiche come diserbanti (contro erbe infestanti), pesticidi (contro insetti nocivi), fertilizzanti ecc. Tutto ricavato dal petrolio. E con intenso uso dell’acqua per irrigare, spesso acqua potabile. Ricordiamo che l’agricoltura assorbe circa il 70% del consumo di acqua dolce globale.

È il cosiddetto “agrobusiness”. A vantaggio delle multinazionali del Nord produttrici di questi prodotti chimici e di questi macchinari.

Ciò ha comportato l’abbandono della “piccola agricoltura famigliare di sussistenza” o agricoltura contadina, e delle pratiche più adatte e confacenti alla variabilità dei terreni e delle specie vegetali e animali. Ancora metà della popolazione mondiale, in modo diretto o indiretto, vive di questa agricoltura. La quale nell’immediato ha “rese” minori in termini di produzione rispetto all’agrobusiness, ma alla lunga preserva le comunità umane e preserva la fertilità dei suoli. L’agrobusiness comporta spesso impoverimento e desertificazione dei suoli e uso sempre più intenso della chimica, aggravando la dipendenza dalle multinazionali.

La rovina dell’agricoltura contadina comporta l’abbandono o l’espulsione dalle campagne e dalle montagne e un nuovo massiccio urbanesimo. Lo studioso egiziano Samir Amin definisce questo processo come nuova “bidonvillizzazione” del mondo. Con l’esplosione delle periferie di slums, favellas, bidonvilles ecc. in molte città del Sud del mondo divenute città con una popolazione enorme, senza che le autorità riescano a dotarle dei servizi minimi necessari come elettricità, acqua corrente e scarichi fognari.

F. Per fare sempre più posto a terreni da coltivare, spesso per produzioni di soia, di cereali, di olio di palma, di legname ecc. si procede alla “deforestazione”. Ogni anno si distruggono ampie regioni dei veri polmoni del pianeta, soprattutto nelle foreste dell’Amazzonia e dell’Indonesia. La deforestazione è una delle cause del riscaldamento globale di cui parliamo più avanti.

G. […] l’acqua è un bene fondamentale per la riproduzione della vita sulla terra. Il suo uso indiscriminato da una parte dell’umanità e la sua mancanza o scarsità per un’altra parte e il suo progressivo inquinamento sono alla base di un’emergenza globale. Anche come fonte di conflitti e di guerre, nel presente e nel futuro. L’acqua, al pari del cibo, rappresenta un’arma strategica nel rapporto tra Stati.

H. La crescita quantitativa ha avuto come stella polare il Pil, Prodotto Interno Lordo, il valore monetario della quantità di beni e di servizi prodotti ogni anno in un qualsiasi paese. Ha costituito l’indice principale per misurare il progresso, il benessere, anche la felicità di una nazione. Soprattutto dal secondo dopoguerra a oggi.

A questa visione distorta si è cercato di ovviare con l’adozione di altri indici. Il principale è stato quello proposto dall’Onu chiamato Isu, Indice di Sviluppo Umano. Un indicatore che tiene conto, oltre allo sviluppo materiale, economico, anche di fattori fondamentali dello sviluppo umano, indice di benessere reale quali la sanità, l’istruzione, la sicurezza sociale, le pensioni, l’ambiente ecc. È per questa ragione che paesi come la Svezia (Nord del mondo) e Cuba (Sud del mondo) si trovano ai primi posti di questa classifica, mentre se è considerato il solo Pil Cuba sprofonda in fondo alla classifica.

Gli Stati Uniti, il paese ricco per eccellenza, primissimo nella classifica per quanto riguarda il Pil, perde molte posizioni se si usa l’Isu, per il grande numero di poveri e per il “modello sociale americano”, deficitario in tema di sanità, istruzione e sicurezza sociale per ampi strati della sua popolazione.

I. Oltre allo Isu, altri organismi internazionali hanno elaborato indici più accurati e complicati. Dove i parametri di benessere umano e ambientale, la giustizia sociale e la giustizia ambientale, svolgono un ruolo fondamentale. Questo a testimonianza anche del fatto che la coscienza diffusa mondiale si è affrancata dalla ferrea presa del modello di sviluppo dominante.

La coscienza del necessario superamento del malsviluppo ha compiuto grandi passi. Ora si tratta per il genere umano di concretizzare questa coscienza.

 

        4. L’ambientalismo, storia e contenuti

Nel 1962 apparve un libro affascinante e triste al medesimo tempo. Aveva come titolo Primavera silenziosa. Quel titolo indicava in modo efficace lo sterminio degli uccelli a causa dell’inquinamento delle acque. L’autrice Rachel Carson descrisse come meglio non si poteva l’effetto nefasto dell’uso indiscriminato del Ddt, il prodotto chimico utilizzato, a partire dal secondo dopoguerra, per distruggere vari insetti. Soprattutto le zanzare responsabili della trasmissione della malaria. Una malattia terribile per molte popolazioni del Sud, del mondo sottosviluppato. Dall’Europa meridionale (Italia meridionale soprattutto) all’Africa, all’Asia e all’America Latina. Un indubbio progresso per queste popolazioni, ma a costo dell’inquinamento e degli effetti collaterali sulla salute umana e degli effetti sull’ambiente vegetale e animale.

Si può considerare quella data e quel libro come l’avvio dell’ambientalismo moderno. Come presa di coscienza, come componente culturale e poi come come movimento reale nelle società sviluppate del Nord del mondo. Anche nel passato vi erano state voci e singole personalità che ebbero coscienza dell’importanza dell’equilibrio ambientale, del rispetto della natura, del rispetto del vivente. Ricordiamo solo il filosofo svizzero Rousseau, lo scrittore russo Tolstoj e alcuni economisti e attivisti che prepararono il terreno a quella che verrà poi denominata “economia ecologica”.

Ma ricordiamo nel Sud del mondo anche i nativi, in area incaica e maya, che invocavano il rispetto della “Pachamama” (in lingua quechua, la Madre Terra), i nativi pellerossa che invocavano il rispetto del Grande Spirito (il tutto del creato) contro i rapaci e famelici privatizzatori bianchi invasori ecc.

Ricordiamo le battaglie di Gandhi e dei movimenti contadini indiani nel processo di decolonizzazione e di indipendenza e nel processo di recupero dell’antica sapienza dei villaggi contadini indiani sull’uso della terra, sulla preservazione della biodiversità. Un patrimonio a cui fanno riferimento ancora oggi grandi movimenti contadini in India, sovente con protagoniste soprattutto le donne, con il supporto di studiosi e attivisti sociali. Ricordiamo qui in primo luogo la scienziata e attivista Vandana Shiva.

Le loro battaglie contro le privatizzazioni delle terre e dei boschi, contro le privatizzazioni delle sementi, attuate per mezzo della proprietà intellettuale dei brevetti di multinazionali come la Monsanto, costituiscono esempi di un ambientalismo diverso, peculiare del Sud del mondo. Dove si cerca di tenere assieme giustizia sociale e giustizia ambientale.

Alcune correnti del Terzo Mondo rivendicano anche la “giustizia climatica”. Dal momento che gli sconvolgimenti a causa del riscaldamento globale, come siccità e alluvioni, colpiscono in modo più grave le popolazioni povere del Sud del mondo. Joan Martinez Alier, noto studioso spagnolo di economia ecologica, propone di usare la semplice espressione di “ecologia dei poveri” per distinguere questo ambientalismo da altre correnti dell’ecologismo soprattutto occidentale.

Nel Nord del mondo spesso l’ambientalismo ha significato una sorta di preservazione della bellezza e della fragilità della natura, a misura dei bisogni di una élite colta e privilegiata. Un ambientalismo tuttavia importante. Che ha prodotto studi, ricerche e pubblicazioni molto efficaci ai fini della coscientizzazione e che ha dato vita a importanti movimenti sociali e culturali. Ha creato più consapevolezza sugli stili di vita, sull’alimentazione sana, sulla necessità di non sprecare ecc. Ha infine promosso anche la formazione di partiti politici, i cosiddetti Verdi.

 

5.  La crisi ecologica globale e i possibili rimedi

Quanto descritto sopra si compendia nell’emergenza planetaria del “riscaldamento globale”. Ormai studi accurati hanno mostrato come la temperatura media globale al suolo sia aumentata dalla rivoluzione industriale fino a oggi.

Un autorevole organismo dell’Onu, lo Ipcc (Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico), composto da più di 2.000 scienziati e tecnici di tutto il mondo, ha steso vari rapporti sul tema nel corso degli anni. Nel quinto rapporto del 2014, questo organismo mostra come l’aumento limite per il pianeta della temperatura al suolo media globale sia di 2 gradi centigradi (scala Celsius) rispetto alla temperatura media globale dell’era preindustriale. Oltre questo limite si innescherebbero processi incontrollabili e devastanti. Nel rapporto speciale dell’ottobre 2018, lo stesso organismo indica concretamente le misure per contenere l’aumento della temperatura media entro 1,5 gradi centigradi. Tenendo comunque conto che questo livello del riscaldamento non diminuisce così facilmente a fronte di comportamenti virtuosi dell’umanità intera. Occorrono secoli per queste variazioni.

Solo alcuni di questi processi incontrollabili, come esempio. Fenomeni atmosferici sempre più acuti, aggravamento delle siccità in alcune parti del mondo e di tempeste e alluvioni in altre, scioglimento dei ghiacci e innalzamento del livello delle acque degli oceani, aumento dell’acidità delle stesse acque con distruzione del plancton e dell’intero equilibrio della vita dei mari ecc. Per non superare questo limite e per stare entro un aumento di circa 1,5 gradi occorre predisporre drastiche misure su scala mondiale per abbattere il 95% delle emissioni attuali di gas serra entro il 2050.

Lo stesso sviluppo scientifico e tecnologico, responsabile dei processi negativi, aiuta al contrario in questi processi positivi. Il primo passo è il risparmio energetico.

Un solo esempio, incredibile solo per le dimensioni e per l’inerzia umana a superare cattive abitudini, e per il condizionamento da parte delle industrie produttrici di apparati che usano elettricità e che hanno interesse a ridurre la vita media di detti apparecchi. È la cosiddetta “obsolescenza programmata”, vale a dire pianificare, da parte della ditta costruttrice, la riduzione della loro durata media e costringere le persone ad acquistarne di nuovi. Inoltre è un esempio importantissimo per la grande importanza dei cambiamenti degli stili di vita.

Un gruppo di ricerca di una importante università americana ha calcolato, in uno studio per l’anno 2002, che se tutti gli abitanti degli Stati Uniti avessero spento totalmente e non avessero lasciato in stand-by (la famosa lucina rossa che tiene pronto l’apparecchio a ricevere telecomandi ecc.) televisori, videoregistratori, impianti hi-fi, climatizzatori ecc., il risparmio equivaleva all’energia elettrica prodotta da 7 centrali nucleari medie statunitensi.

Ma poi decisivo è la fine dell’uso delle energie fossili del carbone, petrolio, gas, produttrici di enormi quantità di gas serra e al loro posto l’uso di energie rinnovabili, per mezzo di pannelli solari e fotovoltaici, delle pale eoliche ecc.

Un altro importante organismo mondiale è la Rete della cosiddetta “Impronta Ecologica” (Global Footprint Network). Questo gruppo di lavoro sparso nel mondo adotta vari parametri per indicare l’impatto che i consumi umani hanno sulla capacità di rigenerazione degli ecosistemi del pianeta terra, calcolando quindi quanta terra, quanto suolo occorre per sostenere i consumi di ogni singolo abitante. Naturalmente l’impronta ecologica nel Nord del mondo è più intensa delle regioni del Sud del mondo.

Solo alcuni dati di raffronto, come esempio. Nel 2017, ogni abitante degli Usa aveva un indice di 8,6 ettari di suolo come impronta, un abitante della Germania 5,5, della Cina 3,6, dell’India 1,1, del Congo 1,3, dell’Eritrea 0,5, di Haiti 0,6.

I numeri forniti da questa rete sono impressionanti. In primo luogo, ogni anno viene calcolato il cosiddetto Giorno del Superamento (Overshoot Day). Sottinteso, del consumo umano di risorse naturali rispetto al capitale naturale annuo, della capacità della terra di ricostituire e rigenerare. Mentre nel 1970 la data era il 31 dicembre e quindi impatto umano e capacità naturale erano annualmente a somma zero, nel 2018 la data è stata il 1 agosto e nel 2019 il 29 luglio. Ciò significa che dal 1 agosto al 31 dicembre 2018 l’umanità ha vissuto in debito e così dal 29 luglio al 31 dicembre 2019. E questo “capitale naturale” non rigenerato aggrava ulteriormente le condizioni del pianeta. A scapito delle future generazioni umane.

L’Impronta Ecologica nel 2019, per i 7,7 miliardi di popolazione mondiale, equivale a circa 1,75 pianeti Terra. Così andando le cose, senza correttivi e senza misure di contenimento, nel 2050 occorreranno ben 3 pianeti Terra. Sempre come dato globale. Tenendo sempre conto delle sperequazioni e della gerarchia mondiale. L’impronta ecologica negli Usa equivale a ben 5 pianeti terra, nella Russia a 3,2, in Germania 3, in Italia 2,7, in Cina a 2,2, in India a 0,7. Con la bella differenza che gli Usa hanno circa 328 milioni di abitanti, mentre la Cina ne ha circa 1 miliardo e 420 milioni e l’India ne ha 1 miliardo e 370 milioni.

A fronte di questo contesto, molte correnti di pensiero e molti movimenti sociali propongono la cosiddetta “decrescita”, il fermare la folle corsa del consumismo e della produzione e conformare lo sviluppo industriale agli effettivi bisogni umani. Il considerare la Terra come una nave in cui tutti gli esseri umani debbano considerarsi responsabili del suo viaggio e non un Titanic destinato allegramente al naufragio.

L’imperativo proposto è quello delle “3 R” (Riduci, Riusa, Ricicla) con un’attenzione maggiore agli oggetti, ai prodotti e agli alimenti, da considerasi cose utili per gli esseri umani e non semplici merci. Da cui lo spreco, come il fatto che un terzo del cibo nel mondo viene sprecato, dalla produzione nei campi alla trasformazione alimentare fino allo spreco nelle case, naturalmente soprattutto dei paesi ricchi.

Senza usare le nozioni di “crescita” e per converso “decrescita”, lo scenario possibile contempla piuttosto uno sviluppo qualitativo, veramente “riproducibile” e non semplicemente “sostenibile”. Tenendo conto dei bisogni umani e della capacità della natura e dell’ambiente di sostenere questi bisogni umani. In un rapporto di simbiosi e non di uso distruttivo. Un antropocentrismo che si potrebbe conciliare benissimo con il biocentrismo.

Giorgio Riolo

L’articolo originale può essere letto qui