Dobbiamo cominciare a contare gli anni a partire da prima e dopo Greta. Non che Greta Thunberg sia morta; è più viva che mai e speriamo che continui ad accompagnarci e guidarci nel nostro viaggio contro il cambiamento climatico, fino a una vera svolta. E nemmeno è necessario sostituire una nuova numerazione a quella di prima e dopo Cristo: va bene quella che c’è. Dobbiamo però prendere atto – a partire da ora, l’anno di Greta – di uno spartiacque che separa ciò che si è fatto finora da ciò che si deve fare da ora in poi.

I risultati della ricerca scientifica a cui Greta fa riferimento ci avvertono che “la nostra casa è in fiamme”. O quei risultati li contestiamo, non si sa su che basi, o ne prendiamo atto: la minaccia che incombe sulle nostre vite e sul nostro pianeta non è fantascienza e bisogna correre ai ripari. E subito. E non è poco: tutto o quasi quello che è stato fatto nel corso degli ultimi decenni o che è stato avviato o anche solo progettato nel corso degli ultimi anni va dismesso o ridisegnato radicalmente nel più breve tempo possibile. E tutto ciò che può consentire, in questo nuovo assetto dell’economia, il mantenimento di uno standard di vita decente – o la sua estensione a chi non lo ha mai avuto – va messo subito in campo. Di tutte le produzioni che dipendono direttamente o indirettamente dall’estrazione e dall’utilizzo dei combustibili fossili – pozzi, miniere, gasdotti e oleodotti, flotte, raffinerie, centrali termoelettriche, mezzi di trasporto di terra, mare e cielo – va programmata la dismissione in un numero di non più di dieci anni o la loro trasformazione, ove possibile, in soluzioni che possono essere alimentate con fonti energetiche rinnovabili. Le quali vanno promosse, insieme alla massima efficienza energetica, senza continuare ad alimentare un regime di spreco come quello in atto oggi. Edilizia e assetto dei territori vanno resi resilienti e meno energivori. La mobilità di cose e persone va riorganizzata integrando trasporto di massa e sistemi flessibili condivisi. L’agricoltura va ricondotta alla sostenibilità con l’adozione di sistemi naturali che restituiscano al suolo fertilità e capacità di assorbire carbonio. E si possono aggiungere (pare) mille miliardi di nuovi alberi ai tremila miliardi già esistenti; ovviamente, senza più deforestare.

Tutta la popolazione, o la maggioranza di essa, dovrà essere coinvolta in questi processi e i lavoratori il cui impiego verrà meno dovranno essere ricollocati nei settori della transizione – dove ci sarà posto per tutti, occupati e disoccupati di oggi – in modo che quel trasferimento sia una promozione economica e sociale. E’ una transizione tecnica, economica e sociale, ma soprattutto culturale e, ovviamente, psicologica, che non ha precedenti nella storia dell’umanità, anche se spesso viene citato – giustamente – come termine di paragone lo sforzo bellico intrapreso allo scoppio della Seconda guerra mondiale nella riconversione dell’industria degli Stati Uniti.

E’ facile e quasi ovvio manifestare un forte scetticismo di fronte a queste prospettive: uno scetticismo che dipende dal fatto che ben pochi, soprattutto in Italia, sono informati della gravità della situazione, ma soprattutto dal fatto che la radicalità e l’estensione dei cambiamenti da realizzare spaventano e paralizzano, spingendo i più all’inerzia. Ma presto cambieranno idea, e dobbiamo adoperarci perché non lo facciano troppo tardi. Se le rilevazioni hanno ormai messo in rotta i “negazionisti climatici” in tutta la comunità scientifica (a dire il vero, non sono mai stati un gran che, anche se di recente anche Franco Piperno ha voluto aggiungere il suo nome a quello del prof. Antonino Zichichi, che capeggia la squinternata pattuglia italiana dei negazionisti climatici), pullulano però nel mondo della “politica” e dell’informazione coloro che considerano la minaccia del cambiamento climatico niente altro che un’arma di “distrazione di massa” rispetto ai problemi sociali ed economici che incombono; esattamente come si sta facendo da tempo, soprattutto “a sinistra”, nei confronti delle migrazioni.

Che costituiscono invece, nonostante il calo drastico degli arrivi (gli altri, quelli che “non arrivano più” e non sono ancora annegati, sono tutti rinchiusi, a milioni, nei lager libici o nelle bidonville turche e degli altri paesi di transito, in attesa che quei regimi facciano “libera tutti” per ricattare l’Europa), il principale problema sociale, il maggiore terreno di scontro politico e culturale e, verosimilmente, il fronte più radicale del conflitto di classe del nostro tempo; anche se esso non si svolge più nelle forme tradizionali del movimento operaio. Ma dal modo in cui viene affrontata “la questione migranti” dipende l’esito di tutti gli altri conflitti sociali che interessano la nostra epoca: in fabbrica, sul lavoro, nel territorio, nella cultura. Ma la questione migranti è a sua volta indissolubilmente legata alla lotta contro il cambiamento climatico, sotto il cui ombrello si raccolgono tutti gli altri problemi: quelli relativi all’oggetto di tutti i conflitti, che è la giustizia sociale e la riappacificazione della specie umana con la Terra che la ospita, e quelli relativi ai “soggetti”, ovvero agli attori, di quei conflitti: perché se si dimentica – si lascia indietro, o si considera un ingombro – l’esistenza di milioni di esseri umani cacciati dalle loro terre dalla prepotenza del sistema economico a cui tutti siamo soggetti, è veramente difficile anche solo pensare di poterne venire a capo.

E’ evidente allora qual è la priorità assoluta dell’era Greta: fare informazione e aprire un dibattito vero in tutte le sedi – scuole, università, fabbriche, aziende, quartieri, istituzioni – capace di inserire i problemi e le aspirazioni della vita quotidiana di ognuno dentro l’orizzonte spaziale (il pianeta tutto) e temporale (non più di 10-15 anni) del cambiamento climatico.