Quando si dice “il pubblico non funziona”, occorrerebbe argomentare l’affermazione. Facendolo, si scoprirebbe che non siamo di fronte ad un dato oggettivo, bensì all’esito di scelte ben precise, finalizzate a mettere sul mercato tutto ciò che sino a due decenni fa ne era escluso, in quanto garanzia di diritti fondamentali.

Il rapporto IFEL 2018 sulla finanza comunale evidenzia chiaramente la metamorfosi intervenuta con le politiche di austerità, imposte dalla teologia della stabilità finanziaria e dalla trappola del debito. Se prendiamo i dati 2010-2017, scopriamo che il saldo netto di bilancio conseguito dai Comuni cresce di circa 8 miliardi di euro, per effetto di un aumento delle entrate (+1,3 mld), ma soprattutto di una drastica riduzione delle spese (-6,3 mld).

Scomponendo il dato delle entrate, si nota un sensibile aumento delle entrate proprie (+34,7%) a fronte di una netta riduzione dei trasferimenti correnti dallo Stato (-36,8%); netta riduzione che si riscontra anche sul versante delle entrate in conto capitale (-33,6%), effetto della crisi economica, ma anche del crollo della contribuzione statale agli investimenti degli enti locali.

Analoghe indicazioni si ricavano sul fronte delle spese, che, nel periodo considerato, vedono una riduzione complessiva del 15,2%, ma con un -33,4% sulle spese per investimenti, effetto chiarissimo dei vincoli finanziari posti in carico ai Comuni.

Entrate tutte finalizzate alla stabilità dei conti, spese ridotte all’osso sia sul fronte dei servizi sia sul fronte degli investimenti: ecco come è stato reso concreto il luogo comune “il pubblico non funziona”. Una matrioska di vincoli che ha ingabbiato i Comuni, minandone la storica funzione pubblica e sociale.

Senza neppure conseguire la famosa stabilità, come si evince dando un occhio alla situazione dell’indebitamento, che appare veramente paradossale: da una parte, infatti, il contributo complessivo dei Comuni all’indebitamento è irrisorio, non superando l’1,7% del debito pubblico complessivo, con una netta riduzione (-19%) nel periodo considerato; dall’altra, quel debito, per quanto basso in valori assoluti, sta letteralmente strangolando, grazie ad interessi da usura, moltissimi enti locali, in particolare i più piccoli.

In media, l’onere complessivo del debito raggiunge il 10% delle spese correnti comunali. Considerando gli Enti fino a 10 mila abitanti ed escludendo i territori delle Regioni speciali del Nord, circa 2.130 Comuni (30%) registrano un onere complessivo del debito superiore al 12% della spesa corrente; di questi, 727 enti (10%) superano un’incidenza del 18% sulle rispettive spese correnti.

Risulta chiara da questi dati la drastica espropriazione di democrazia operata in questi anni dalle politiche liberiste, che hanno trasformato i Comuni da luoghi primari della democrazia di prossimità  in terreni di penetrazione degli interessi finanziari dentro le comunità.

Forse è venuto il tempo di una ribellione collettiva da parte delle comunità locali e di quelle amministrazioni (in netta diminuzione) ancora legate all’idea di Comune come garante dei diritti fondamentali ed erogatore dei servizi necessari a renderli fruibili.

Forse è giunto il momento di rivendicare una finanza locale che preveda risorse adeguate e incomprimibili per la funzione sociale degli enti locali, e un finanziamento delle opere pubbliche (do you remember Cassa Depositi e Prestiti?) che preveda interessi zero, non essendo le stesse finalizzate ad alcun profitto, bensì all’interesse generale (collettivamente deciso).

L’alternativa è l’attuale Far West della solitudine competitiva e del rancore sociale.

 

Pubblicato su Il Manifesto del 4.5.2019

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