Sul film “Nimble fingers

Di Lidia Ferrari

Il documentario Nimble fingers1 di Parsifal Reparato, racconta del Vietnam contemporaneo, un paese simbolo della lotta contro l’imperialismo, che oggi ospita le più importanti multinazionali dell’elettronica mondiale.

La scena del film che non possiamo dimenticare è quella in cui una marea di centinaia di giovani donne si muovono in fretta verso l’entrata della fabbrica. Migliaia di donne che apparentemente si assomigliano, non tanto per i tratti del volto o per i loro abiti, ma per il lavoro che si apprestano a intraprendere in una condizione di oppressione e semischiavitù.

Giovanissime, vanno a lavorare per produrre quelle stampanti dai marchi prestigiosi che quasi tutti noi possediamo. Molte di loro camminano con le mani in tasca, forse per il freddo o forse per abbracciare se stesse prima di entrare nel vortice della fatica quotidiana. Alcune portano sandali con i calzini, altre indossano delle ciabatte, ma nessuna di loro corre, evidentemente sono in orario. Non devono arrivare tardi se non vogliono perdere il lavoro. Le vediamo entrare e le vediamo uscire dalla fabbrica, ma non le vediamo quando sono dentro a lavorare. È proibito riprendere il lavoro nella fabbrica. Anche se il regista ha ottenuto clandestinamente immagini che riprendono alcune lavoratrici all’opera, decide comunque di raccontare il loro lavoro attraverso disegni animati che ripetono migliaia di volte un unico movimento. Nimble fingers significa dita agili. Le multinazionali impiegano solo giovani donne. Perché solo donne? Perché hanno agilità manuale, sono più docili degli uomini e non sono sindacalizzate. Probabilmente questo è solo un pregiudizio dei datori di lavoro, ma resta il fatto che vengono impiegate in prevalenza giovani donne che tuttavia non sono solo lavoratrici, come scopriamo durante il film.

La macchina da presa segue in particolare la vita di una di loro e delle sue amiche, raccontando il poco tempo libero che resta dopo il lavoro, seguendole nei gesti quotidiani nell’alloggio precario in cui vivono. Sono arrivate lì dalle zone rurali del Vietnam del nord per realizzare i loro sogni, che durante il film vediamo sgretolarsi. La retribuzione economica del lavoro in fabbrica non permette loro nemmeno di pensare di fare qualcosa in più che sopravvivere e di inviare scarse rimesse alle loro famiglie. Una realtà diffusa in tutto il pianeta. Ci ricorda i lavoratori della fiorente e ultra tecnologizzata Dubai, che chiamano la città dei sogni, che nasconde nella sua periferia, Sonapur, quelli che fabbricano i sogni degli altri vivendo nelle baraccopoli senza le proprie famiglie. Sono i lavoratori che vengono dal sud dell’Asia e hanno pagato un costoso viaggio per realizzare un sogno di progresso che si trasforma rapidamente in un incubo. Ci ricorda i lavoratori dell’India, del Pakistan, della Cambogia e di tanti altri paesi, dove le multinazionali possono sfruttare i lavoratori come non riescono ancora a fare nei paesi sviluppati del primo mondo, anche se i flussi migratori verso i paesi a capitalismo avanzato stanno portando lavoratori che riproducono questo modello di produzione globalizzata.

Ci sono due aspetti del film sui quali mi interessa riflettere.

La terra promettente.

La protagonista è emigrata da un villaggio rurale per lavorare e vivere nel parco industriale nella periferia di Hanoi. Il film rivela come i suoi sogni si infrangono non appena si scontra con la realtà della metropoli. Ci racconta anche cosa significa per lei ritornare nel suo paese durante le feste.

Mettiamo così a confronto i due contesti nei quali vive: la dimora precaria che condivide con altre ragazze nella periferia di Hanoi e la grande palafitta di famiglia nel suo villaggio. Guardando i due ambienti pensiamo subito che la sua terra di origine sia molto più piacevole e ospitale. Ma quando è emigrata lei non lo sapeva e non immaginava che sarebbe ritornata a casa dopo aver infranto il suo sogno.

La tragedia del capitalismo globalizzato è questa: la terra promessa si trova sempre in un altro posto, non è mai il proprio luogo nativo. E quando si fa l’esperienza dell’esilio, il ritorno a casa non sarà mai uguale. Il marchio della delusione diventerà una cicatrice nell’anima del migrante.

Per la nostra protagonista inoltre, era impensabile doversi sottoporre a un livello di sfruttamento tale per poter realizzare il suo sogno di progresso. Un altro documentario proiettato nel festival “Ma’ ohi Nui2, racconta dei tahitiani e degli effetti che hanno subito a causa della colonizzazione francese e degli esperimenti nucleari di Mururoa. Quella popolazione che abbiamo idealizzato attraverso i dipinti di Gauguin, perde completamente il suo alone idilliaco. Oltre alle malattie e alle morti provocati da questi esperimenti, oltre all’inganno della storia di cui è stata vittima, la popolazione ha abbandonato i mestieri che aveva praticato per millenni, poiché con i soldati francesi e le loro bombe è arrivato anche il vile denaro. Lavorando per loro, si potevano fare più soldi e più facilmente. Così hanno perso tutto. Hanno perso la loro maniera di vivere, hanno perso i mestieri che non sono stati più tramandati tra le generazioni. Hanno perso vite umane. E sono rimasti con quello che i francesi avevano portato: la pratica della morte.

Come nel caso di coloro che emigrano verso gli Stati Uniti o l’Europa, bisogna dire che c’è anche un desiderio che li guida e che li porta all’emigrazione. Non è, solo, la necessità ciò che obbliga a emigrare. Ci sono storie che raccontano che dall’altra parte c’è una terra promettente. Sono le stesse narrazioni che conducevano gli europei “a fare l’America”. La promessa e il miraggio di ricchezza e prosperità ingannano le persone. È vero che nei processi migratori sono implicati i trafficanti di persone, le multinazionali…ma è anche vero che viene usato un metodo molto, ma molto antico e contagioso: la narrazione di storie avventurose. Il desiderio di emigrare per lasciarsi alle spalle la propria miseria, in molti casi non è che il frutto che matura dalla potenza di un racconto che pone qui e ora la disgrazia e colloca la buona sorte lontano e nel futuro. Siamo convinti che qui si vive male e partiamo per raggiungere un sogno di fortuna.

Sono finite le epoche in cui i negrieri andavano a caccia di schiavi, o in cui la guerra perduta obbligava i vinti a convertirsi in schiavi. I racconti e la loro forza narrativa sono oggi le corde che incatenano i futuri schiavi che scelgono di emigrare. Le narrazioni fantasiose raccontano che pagando una certa somma, il tale trafficante li porterà a Dubai, New York, Berlino, dove si vive molto meglio e dove il sogno di progresso diventerà realtà. Anche i media narrano di un mondo migliore e ci incatenano a questa visione. Ma di quale mondo migliore si parla? Qual è il sogno che spinge le donne russe e ucraine a fare le valigie e partire dall’Europa dell’est per accudire gli anziani in fin di vita in Europa occidentale? Lo dobbiamo dire: non è solo la necessità di scappare dalla fame e dalla guerra, non si tratta solo di necessità. Si tratta anche di assecondare un desiderio che nasce dai racconti che parlano di territori benedetti, di terre prodighe e di denaro più accessibile. Ci sono sempre stati esodi ed emigrazioni. C’è sempre stata l’illusione di un posto migliore in cui vivere. Ma non c’è sempre stata una ostinata e costante induzione al consumo, all’acquisto di beni e al possesso del denaro. La popolazione più vulnerabile agli stimoli consumisti, viene spinta ad emigrare. Perché? Per vivere meglio? E che cosa significa vivere meglio in questo contesto se non poter consumare di più e meglio? Così il circolo è perdutamente vizioso. Le multinazionali offrono merci a un prezzo migliore, un prezzo abbattuto che si può applicare grazie al fatto che centinaia di migliaia di persone lavorano in condizioni subumane per poter acquistare questi stessi oggetti. Emigrare è una scelta non troppo libera, perché la enorme pressione pubblicitaria converte l’essere umano in un consumatore incallito, come se non potesse fare altra scelta che questa, per finire tra le braccia di quelli che, in questa ruota senza fine, sono gli unici che accumulano la ricchezza che egli stesso produce.

Non era meglio restare nel proprio villaggio a coltivare il riso? Non lo sappiamo.

Nimble fingers possiede la virtù di non offrirci una risposta ma piuttosto di suscitare interrogativi.

Perché devono essere donne?

Si potrebbe analizzare da diverse prospettive il fatto che siano esclusivamente le donne le uniche adatte a questo lavoro. Sappiamo anche che non è altro che un modo di contribuire a un certo pregiudizio che condanna gli esseri umani a confermare gli stereotipi. Il regista Parsifal Reparato, ha commentato alla fine della proiezione che esistono studi dettagliati sulla organizzazione funzionale del corpo e su quali sono i movimenti necessari che un operaio deve realizzare nella catena di montaggio per ottimizzare la produzione. L’immagine che non abbiamo visto dell’interno della fabbrica con le ragazze al lavoro, rievoca Tempi Moderni di Chaplin. Stiamo assistendo a una ultra modernità nella quale non ci sono limiti e dove i diritti umani acquisiti si diluiscono nella delocalizzazione e deterritorializzazione dei corpi umani. I corpi sono concepiti come macchine, o meglio, come robot. Ci chiediamo se siamo condannati solo a due opzioni: smettere di usare i corpi umani per sostituirli con robot oppure usare i corpi umani come robot.

Il film ci dice che non ci hanno ancora convertito in robot e che la vita delle giovani vietnamite è fatta di sogni, domande e inquietudini che sfuggono al destino che qualcun altro ha stabilito per loro.

La marea al femminile delle manifestazioni di Ni una menos o del 8M, migliaia di donne in lotta per i diritti che ci riguardano tutte, è molto in contrasto con la marea delle lavoratrici che entrano o escono dalla fabbrica. Viste dall’alto non si distinguono l’una dall’altra e suggeriscono l’unione tra le donne. Ma tra di loro è necessario un coordinamento, perché in realtà sono molto diverse.

L’emancipazione per la quale lottano le donne di Ni una menos deve essere organizzata per unirsi a quella marea che non può fare altro che entrare in fabbrica a lavorare e vendere il suo corpo docile e le sue dita agili al miglior offerente.

Non ci può essere l’emancipazione di una parte senza l’emancipazione dell’altra.

 

Traduzione: Emma Ferulano

1 Film documentario in concorso al Sole Luna Doc Film Festival, a Treviso, settembre 2018.

2 Idem