Ha colto tutti di sorpresa l’attentato di ieri al primo ministro palestinese appena entrato nella Striscia di Gaza. Le notizie sono arrivate velocissime attraverso radio e tv e i commenti dei gazawi raccolti a caldo non erano diversi da quelli raccolti oggi, dopo un giorno dall’attentato. Le opinioni sono diverse a seconda delle simpatie per le diverse fazioni, ma a distanza di un giorno non sono cambiate e per alcuni degli intervistati più che opinioni sono convinzioni assolute.
Un fatto è chiaro a tutti, quale che sia la fazione in cui si riconoscano: non voleva essere un attentato mortale e infatti non lo è stato. I feriti, peraltro lievi, non sono feriti per l’esplosione ma per I tamponamenti delle varie auto. Allora qual era il senso dell’attentato? Un messaggio, così ci dicono più o meno tutti. Chi l’autore? Qui le opinioni sono estremamente variegate, vanno da chi accusa Hamas – che comunque ha condannato l’attentato e ha arrestato due sospetti – a chi accusa frange estremiste, a chi addirittura accusa militanti di Fatah. Quale lo scopo? Anche qui le opinioni divergono a seconda delle simpatie politiche e vanno da chi crede al tentativo di far fallire il difficile progetto di riconciliazione a chi sostiene che l’azione intendesse punire l’Anp, ovvero Fatah, per non aver rispettato i patti stabiliti con Hamas, fino alla fantasiosa opinione che si tratti di un messaggio di incoraggiamento a proseguire nel percorso di conciliazione!
Queste opinioni sono state raccolte in diversi punti della Striscia di Gaza in due momenti diversi, cioè nelle ore immediatamente seguenti all’attentato ed il giorno successivo, per capire se l’aggiungersi di elementi conoscitivi potesse portare a un cambiamento di opinione degli intervistati. In realtà di elementi conoscitivi se ne sono aggiunti ben pochi e tre sono le dichiarazioni su cui puntare l’attenzione: la dichiarazione immediata, sprezzante verso Hamas e liquidatoria del processo di conciliazione fatta dal presidente dell’Anp Abu Mazen; la dichiarazione di condanna dell’attentato fatta dal portavoce di Hamas; la dichiarazione pacata e decisa a portare avanti il processo di pace fatta dal primo ministro Rami Hamdallah oggetto dell’attentato insieme al capo dell’intelligence Majed Faraji.
Le opinioni dei media italiani in linea di massima lasciano intendere che l’attentato sia opera di Hamas e che il suo obiettivo fosse quello di minare il processo di conciliazione. Non ci sono elementi oggettivi per affermarlo, ma il ruolo degli opinion maker è appunto quello “di fare opinione” e l’opinione prevalente in Italia, circa Hamas, ricalca quella israeliana, ergo, Hamas è un movimento terrorista, e il tema della conciliazione passa in secondo piano.
Non spetta a noi il compito di assolvere o condannare, ma una riflessione sulle diverse opinioni raccolte ci fa dire che se l’Anp realmente ci tiene alla riconciliazione, non è sulla condanna senza prove contro Hamas che può portare avanti il processo visto che è con Hamas che deve raggiungere l’intesa. Se Hamas ci tiene a raggiungere la conciliazione con l’Anp ha fatto bene a condannare l’attentato, chiunque l’abbia commesso. Ma su tutte le opinioni raccolte aleggia una presenza, qualche volta accennata e solo in un caso detta esplicitamente: Mohammad Dahlan. Dahlan è un nome con una storia degna di un romanzo giallo. Di lui si dicono cose gravissime, probabilmente fantasie popolari, ma si dice anche che sia un uomo potentissimo e molto gradito tanto agli Usa che a Israele. Qualcuno lo chiama già presidente dando per certo che succederà ad Abu Mazen. Sul suo essere potente oltre che ricchissimo non ci sono dubbi, sul resto ci sono voci. Più o meno fondate, ma solo voci.
Dahlan è stato nemico giurato di Hamas, quando era un dirigente di spicco di Fatah, ma la vita è dinamica, è stato defenestrato dalla corrente legata ad Abu Mazen e le alleanze cambiano. Anche i giuramenti hanno una loro elasticità, per cui al momento si dice che proprio alcuni dirigenti di Hamas puntino su Mohammad Dahlan il quale avrebbe una nutrita schiera di fans I quali, conoscendone il potere economico e gli agganci politici, soprassiedono sulle accuse di corruzione e di collaborazionismo che lo accompagnano.
Resta la domanda chiave: a chi giova l’attentato-simbolo al primo ministro palestinese? E chi ha pensato all’attentato organizzandolo in modo tale da rappresentare un messaggio e non un omicidio, sarà riuscito a farlo capire quel messaggio o sarà stato frainteso? Mirava proprio a rompere la conciliazione o puntava ad altro?
Le parole del primo ministro, forse perché da ex-rettore universitario è abituato a pensare prima di emettere sentenze sommarie, sembrano essere le sole che possano salvare il processo di unificazione. Il professor Hamdallah infatti ha immediatamente dichiarato “E’ in corso un grande complotto contro il progetto nazionale e Hamas non deve permettere che riesca…..(saremo) ancor più determinati e quel che è accaduto oggi non ci impedirà di proseguire la via verso la fine della divisione”. Se sarà così Israele non troverà giovamento dall’attentato, né lo troveranno le frange estremiste.
Se la conciliazione è realmente l’obiettivo che Fatah e Hamas perseguono, avranno sufficiente intelligenza politica per arrivare a una strategia condivisa avendo presente che il nemico comune si chiama Israele? Sarà il futuro prossimo a dar risposta alla nostra domanda la quale, al momento, è solo la sintesi di una riflessione sulle opinioni raccolte.
Paolo Loreto
Jabalia 14 marzo 2018