Il 27 gennaio è, com’è noto, la giornata dedicata alla commemorazione e, in particolare, alla memoria della Shoah; più complessivamente, alla memoria dello sterminio, perpetrato dalla furia nazista negli anni del suo dominio su gran parte dell’Europa, una delle pagine più tragiche dentro una delle stagioni più cupe della storia d’Europa e della intera umanità.

Quando, infatti, il 27 gennaio del 1945 le avanguardie dell’Armata Rossa, nella loro epica risalita dall’Oriente verso la parte centrale dell’Europa continentale, costringendo le truppe naziste ad indietreggiare, miglio dopo miglio, e liberando il suolo europeo dalle armate hitleriane, giunsero ad Oświęcim, aprendone i cancelli e liberando il campo di sterminio, dischiusero per la prima volta agli occhi del mondo la fisionomia di un orrore indicibile.

Auschwitz-Birkenau era stato, sino ad allora, l’epicentro di quell’orrore. Non meno di 15 milioni di morti e, tra questi, quasi 6 milioni di ebrei distrutti nelle politiche di persecuzione e di sterminio e all’interno dell’universo genocidario e concentrazionario nazista se, da una parte, danno l’idea della portata quantitativa di quell’orrore, d’altra parte, non riescono a comunicare la fisionomia complessiva della tragedia, nella sua dinamica qualitativa, e nel significato e nelle implicazioni di ciò che si era abbattuto sul continente europeo a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, per l’appunto, del Novecento, il lungo “secolo breve”.

Le stesse domande che, per lungo tempo, hanno accompagnato i sopravvissuti, perché scampati e “salvati”, mentre tanti sarebbero stati destinati alla morte, “sommersi”, nel campo, finivano per risolversi, di volta in volta, nell’una o nell’altra delle uniche risposte possibili: per testimoniare a tutti la totalità di quell’orrore e per educare i popoli a non scommettere, inevitabilmente, sulla “ripugnanza” del male, ma ad interrogare e interrogarsi, anche  e soprattutto, sulla cosiddetta “banalità”, quotidianità, assurda razionalità, del male.

Ciò che sconvolge, infatti, di Auschwitz, della Shoah, del progetto di sterminio nazista, non è l’esempio del “primato storico” (non essendo, il genocidio del popolo ebraico, il primo genocidio a carattere di massa della storia, anche di quella recente) e nemmeno la vastità della portata quantitativa (ammesso che sia possibile valutare una pratica genocidaria in relazione alla quantità delle vittime). Ciò che sconvolge e che continua a rappresentare un unicum nella storia umana, è il carattere di “scientificità pianificata” dello sterminio, con cui i nazisti intesero dare corso alla cosiddetta “soluzione finale” della presenza ebraica in Europa.

Una “scientificità pianificata” in relazione alla quale un intero apparato statale fu messo al servizio di un duplice scopo: lo sforzo bellico e la “soluzione finale”, l’uno e l’altra, ovviamente, strettamente intrecciati, se è vero, com’è vero, che facevano parte di un disegno unico di dominio, il dominio della razza ariana e delle forme del suo potere (il nazismo), attraverso una guerra di conquista su larga scala (il Reich millenario, vagheggiato dai nazisti, in Europa e, in prospettiva, nel mondo), sorretto dall’imposizione di un dispositivo totalitario inedito, caratterizzato da una compiutezza cui mai si era assistito nella storia del mondo.

Il che significa piani e leggi, strumenti e tecniche, apparati e uffici, burocrati e funzionari dislocati a servizio di quel macabro progetto: un progetto fatto (anche) di esecuzioni ed esecutori quotidiani, appunto, una banalità del male al servizio di un’ideologia di distruzione e selezione che pure aveva sedotto e affascinato, nelle sue varianti e declinazioni, vaste masse nel continente europeo, sconvolto dagli esiti della prima guerra mondiale, dalle conseguenze di una catastrofica crisi economica e dalla suggestione di ideologie di morte.

Come si vede, non si tratta di dinamiche “irripetibili”, né di parole “indicibili”: crisi e rabbia, frustrazione e miseria, ideologie e capi, militarismo e razzismo. Sono parole consuete. Il dovere della memoria è proprio qui: un argine, per sbarrare quotidianamente la strada all’orrore e, altrettanto quotidianamente, rigenerare il tessuto della convivenza e della pace.