Nel corso della recente Giornata Mondiale dell’Alimentazione, che quest’anno ci propone il tema “Cambiamo il futuro delle Migrazioni”, la FAO ci porta a riflettere sulla sfida “madre” ovvero sulla necessità di rispondere alla povertà del mondo rurale, che non lascia altra scelta se non quella di abbandonare la propria terra. In Burundi, l’associazione LVIA sta lavorando per migliorare lo sviluppo e la sicurezza alimentare delle comunità rurali, insieme ad Oxfam e vari partner locali e internazionali, con il contributo dell’Unione Europea e dell’8×1000 della Chiesa Valdese.

Dalla capitale Bujumbura, addentrandosi nel dolce paesaggio collinare del Burundi è chiaro quale sia il peso dell’agricoltura nell’economia del paese: campi familiari, bananeti, coltivazioni di thè puntellano il territorio ed anche i ripidi pendii delle colline sono coltivati in modo intensivo fino a 2.000 metri di altitudine. La superficie disponibile per le coltivazioni è poca: grande poco più del Piemonte, il Burundi è uno dei paesi africani più densamente popolati e con un alto tasso di crescita della popolazione; fattori che, combinati con la scarsità di terra e la povertà, contribuiscono alla diffusa insicurezza alimentare.

A peggiorare le condizioni di vita della popolazione c’è lo spettro del conflitto etnico tra Hutu e Tutsi, spesso fomentato e strumentalizzato a fini politici. Un paese contraddittorio il Burundi: da un lato è “accogliente” – ospita infatti più di 60mila rifugiati soprattutto congolesi – dall’altro sono 360mila i burundesi fuggiti nei paesi confinanti – la maggior parte accolti dalla Tanzania (dati UNHCR, 2016) – in conseguenza della crisi politica e sociale scoppiata nel 2015 a causa del conferimento del terzo mandato al presidente Pierre Nkurunziza, in violazione della costituzione e degli accordi di pace di Arusha. Da allora, il paese vive uno stato di tensione che non può non riportare alla memoria le sofferenze ai tempi dell’IKIZA – “la catastrofe”, che in lingua kirundi identifica gli eventi conflittuali del ’93.

Cosa può quindi realizzare e significare la cooperazione internazionale in un contesto critico come il Burundi? “ISI IZIDUNZE”, il titolo del progetto in kirundi, significa “La terra che ci dona la vita” e come spiega Oscar Niyonzima, burundese, agronomo di LVIA: «Il principio su cui si basano le attività è “Insieme è meglio”, cioè è più vantaggioso aggregare le produzioni, ad esempio per una presenza più forte sul mercato, piuttosto che fare tutta da sé. Questa attitudine non è scontata oggi nel paese, dove le crisi politiche e sociali scoraggiano la fiducia nel “mettersi insieme”. Nelle nostre attività sul campo vediamo che le comunità sono di etnie e idee politiche diverse ma il desiderio di sviluppo le accomuna. Allora, l’impatto del progetto va oltre la costruzione di infrastrutture, le formazioni…e diventa un terreno d’intesa comune per costruire sviluppo, minimizzando le tendenze divisorie nella società. Le persone incontrano le comunità delle altre colline, scambiano le proprie esperienze, Hutu e Tutsi, insieme, si riconoscono in un’unica forma di organizzazione ed in un obiettivo per il benessere comune».

Il 90% della popolazione burundese si dedica all’agricoltura familiare e tra le difficoltà che vivono i contadini ci sono lo scarso accesso al credito, la povertà dei mezzi e degli input di produzione, le tecniche di coltivazione non performanti, la debolezza delle organizzazioni e delle strutture di aggregazione.

In tal senso, tra le dinamiche più interessanti innescate da LVIA nel progetto c’è quella dei Centri di Servizi Rurali, strutture che mettono a disposizione servizi ed input di prossimità. Qui è possibile trovare sementi, prodotti fitosanitari, concimi, hangar per lo stoccaggio del raccolto, macchinari per la trasformazione. Si punta ad una gestione sostenibile nel tempo, per questo i Centri sono presi in carico dalla comunità locale attraverso le organizzazioni dei produttori, e alcuni servizi sono prestati a pagamento, ma comunque ad un prezzo accessibile proprio in virtù della prossimità.

Sono stati realizzati otto Centri di Servizi a Rongero, Gitaba, Ngoma, Kayero, Muriza, Butezi, Bweru, Rusengo, nelle province di Ruyigi e Rutana. A Rongero, il presidente del Centro mi spiega che la struttura è gestita da 48 organizzazioni di 12 colline che – sottolinea – per la prima volta lavorano insieme. Lui, eletto da questa base, mi mostra l’hangar dove sono stoccate 50 tonnellate di prodotti, tra cui fagioli, riso, piselli, soia«I benefici del Centro sono molteplici – spiega. – La produzione è aumentata e lo stoccaggio nell’hangar ha cambiato la gestione del raccolto. Prima, ogni famiglia lo conservava in casa con il rischio di deterioramento e di furto, e lo vendeva individualmente con uno scarso guadagno. Qui al Centro, i produttori possono partecipare ad una vendita collettiva e organizzata, effettuiamo ricerche di mercato per piazzare i prodotti presso ristoranti, organizzazioni umanitarie ecc. Siamo all’inizio e abbiamo bisogno di ulteriore accompagnamento, ma non vogliamo tornare indietro e ci siamo presi in carico la gestione di questi servizi».

Il Centro di Rongero, come alcuni degli altri Centri Servizi attivi nel progetto, con i guadagni derivanti dalla vendita degli input e dei servizi agricoli riesce a praticare il “warrantge”, una forma di microcredito adottata nel mondo rurale in base alla quale il produttore, a garanzia del prestito ricevuto deposita una parte del raccolto. Il warrantage, oltre a permettere l’accesso al credito altrimenti impossibile alla maggioranza del mondo rurale, offre il vantaggio che, conservando in tal modo il raccolto, il produttore possa rivenderlo nei periodi in cui tali prodotti scarseggiano, posizionandosi meglio sul mercato e aumentando i margini di guadagno.

Le attività promosse da LVIA hanno ad oggi supportato 9.000 produttori, come Libérate Ndekoumane, una giovane donna che incontro in uno dei Centri di Servizi presso una decorticatrice per il riso «Ho avuto la fortuna di partecipare al progetto – mi racconta. Ho seguito delle formazioni e il mio campo, insieme a quelli dei miei vicini, è stato fornito di un sistema d’irrigazione, così posso produrre anche fuori stagione». Per lei e per la sua famiglia, la vita oggi è migliore: «Posso nutrire i miei 8 figli, conservare il mio raccolto e riservarne una parte alla vendita».

Ovviamente non tutti i produttori sono nella situazione di Libérate, la piena autosufficienza alimentare in Burundi non è ancora stata raggiunta, ma i Centri di Servizi stanno contribuendo a diffondere un nuovo approccio nella gestione della produzione che, richiamandoci all’appello della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, può rappresentare la chiave per praticare un’agricoltura non solo capace di “sfamare” ma anche di superare la povertà del mondo rurale.

 

Lia Curcio