Per decisione del sindacato internazionale, il 7 ottobre è diventato la giornata mondiale per la dignità del lavoro. Una decisione presa dieci anni fa dopo aver constatato che troppe persone lavorano per salari al di sotto della linea di povertà, in ambienti insalubri e insicuri, senza alcun tipo di libertà sindacale. E non pensiamo che riguardi solo i paesi del Sud del mondo o dell’Europa dell’Est. Riguarda anche la nostra Italia considerato che l’economia sommersa vale il 13% del Pil.

Anche Papa Francesco ci esorta ad impegnarci per un lavoro dignitoso. In un messaggio inviato ai vescovi del Sud riuniti a Napoli il 9 febbraio 2017 si legge: «Il Santo Padre auspica che le comunità ecclesiali, al fianco delle istituzioni, si adoperino con dedizione per cercare soluzioni adeguate alla piaga sempre più estesa della disoccupazione giovanile e del lavoro nero e al dramma dei tanti lavoratori sfruttati per avidità, a causa di una mentalità che guarda al denaro, ai benefici e ai profitti economici a scapito dell’uomo».

Per trovare la soluzione ai problemi vanno capite le cause e ormai tutti concordano che la globalizzazione ha contribuito pesantemente a corrodere la dignità del lavoro. Liberate da ogni vincolo di radicamento territoriale, le imprese non si fanno scrupolo a lasciare i paesi dai diritti garantiti per trasferirsi dove il lavoro si può sfruttare a piacimento. Con effetto boomerang anche  per i paesi a maggior tutele: facendo pesare sul piatto della bilancia la spada della competitività, le imprese hanno imposto ai vecchi paesi industrializzati condizioni sempre più gravose per restare. E ovunque la politica ha chinato la testa. Nel tentativo di rendere il proprio paese una piazza appetibile per gli affari, i parlamenti di tutta Europa si sono affrettati a varare le famose riforme, leggi che indeboliscono l’attività sindacale, che ampliano la flessibilità in assunzione, che danno maggior libertà di licenziamento.

Lungo questa china la dignità del lavoro cadrà sempre più giù, e se è vero che dalla globalizzazione non si torna indietro, allora bisogna darle un volto diverso. Bisogna passare dalla globalizzazione degli affari alla globalizzazione dei diritti, come da tempo invoca la parte migliore della società. Attraverso tre iniziative: vincolando il commercio internazionale al rispetto di clausole sociali, imponendo alle multinazionali regole stringenti, creando un legame inscindibile fra salari minimi legali e salari vivibili.

A seconda di come è concepito, il commercio internazionale, al pari del denaro, può trasformarsi in padrone che opprime o in servitore che migliora la vita. Nell’impostazione corrente il commercio è un tiranno che impone a ogni altra esigenza umana, sociale e ambientale di piegarsi ai suoi calcoli di crescita. Lo testimoniano non solo i trattati dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma anche gli accordi bilaterali di libero scambio, non ultimo il CETA. Interessati solo a garantire alle imprese mercati sempre più vasti, ogni attenzione per le condizioni di lavoro, per la salute dei consumatori, per la sostenibilità ambientale è vissuta come un nemico di cui sbarazzarsi. Così succede quando l’economia non è per le persone, ma per il profitto. Questa concezione, però, può essere ribaltata cominciando ad affermare che il commercio è legittimo solo se si muove all’insegna del rispetto sociale e ambientale. Come dire che ogni bene e servizio ottenuto al di fuori di queste regole può essere respinto, salvo mettere in atto interventi di cooperazione internazionale per aiutare i paesi più deboli a correggere le proprie inadempienze.

Nella stessa logica si iscrive la necessità di dotarci di regole da fare rispettare alle multinazionali. In una situazione in cui le imprese sono diventate  capaci di operare a livello mondiale, ma la legislazione è rimasta ferma agli ambiti nazionali, si è creato un pericoloso vuoto legislativo che le imprese sfruttano a proprio vantaggio come mostra il caso fiscale. Rispetto ai temi del lavoro, sia le Nazioni Unite che l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) hanno emanato delle linee guide per indicare alle multinazionali come comportarsi al fine di garantire il rispetto dei diritti umani e sindacali. Ma si tratta di tentativi ancora molto timidi considerato che hanno solo valore volontario. La grande sfida è trasformarle in regole obbligatorie e se è di buon auspicio che le Nazioni Unite abbiano dato mandato a un gruppo di lavoro di elaborare una proposta da mettere ai voti, la possibilità che possa essere approvata dipenderà molto dalla pressione popolare.

E per finire la questione salariale che rappresenta la ragione principale per cui si cerca un lavoro. In molti paesi, l’unico elemento di diritto a cui i lavoratori possono aggrapparsi è il salario minimo legale. Molto spesso, però, è fissato a livelli largamente al di sotto del fabbisogno familiare. In Bangladesh, ad esempio, rappresenta appena il 18% del fabbisogno stimato, in Cambogia il 20%, in Romania il 22%, in Polonia il 32%, parola della Clean Clothes Campaign. Una situazione scandalosa che potrebbe essere superata se all’interno dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro venisse raggiunto un accordo che impegna tutti gli stati a fissare il salario minimo legale al livello di vivibilità. Tale, cioè, da coprire il fabbisogno minimo di tipo alimentare, abitativo, sanitario, scolastico, di una famiglia tipo.

Un simile accordo, oltre ridare dignità ad oltre un miliardo di persone, produrrebbe anche una maggior stabilità del lavoro. Effetto miracoloso di una minor distanza salariale che ridurrebbe la convenienza delle imprese a spostarsi da un paese all’altro. In conclusione di strategie per la dignità del lavoro se ne possono individuare tante. Il problema è la volontà collettiva. Ma anche su questo ognuno di noi può fare la propria parte.

(Avvenire 7 ottobre 2017)