La Finlandia è nota ormai da molto tempo per la qualità del suo sistema educativo e continua a guadagnarsi posizioni molto elevate nelle classifiche internazionali di settore. Nell’era del digitale, il Paese sta però ripensando il proprio modo di insegnare, con l’obiettivo di porvi al centro competenze e materie: non è raro, infatti, incontrare classi che lavorano sempre più spesso con strumenti multimediali di ultima generazione, imparando la storia comparata attraverso il confronto, per esempio, tra le terme dell’antica Roma e le moderne Spa, oppure disquisendo sull’architettura e gli scopi degli stadi contemporanei rispetto al Colosseo. Altrettanto frequente è l’utilizzo di stampanti 3D per elaborare modelli che verranno poi utilizzati in attività o giochi con i compagni di classe. E la differenza con una classica lezione di storia antica è lampante: in questo caso i ragazzi acquisiscono abilità tecnologiche, di ricerca e comunicazione, e sviluppano ottime capacità interpretative in ambito culturale. Ogni gruppo di lavoro diventa esperto su quel tema, che verrà poi presentato e condiviso con il resto della classe – un metodo di lavoro che non sostituisce, ma affianca, le lezioni “normali”.

Da oltre vent’anni la Finlandia gode di ottima reputazione quando si parla di educazione e la capacità del Paese di formare studenti competitivi che non cominciano la scuola dell’obbligo prima dei 7 anni, hanno orari scolastici ridotti, vacanze più lunghe, pochi compiti a casa e nessun esame ha a lungo affascinato esperti e formatori in tutto il mondo. Nonostante ciò, la Finlandia sta rivoluzionando questi parametri, convinta che in un mondo che va digitalizzandosi a velocità esponenziale sia di vitale importanza non relegare l’apprendimento agli strumenti fino ad ora più noti e utilizzati (libri, lavori di gruppo): dall’agosto dello scorso anno è diventato infatti obbligatorio per le scuole finlandesi un insegnamento che favorisca la collaborazione, assieme alla scelta da parte di ogni studente di un tema che senta particolarmente rilevante, in modo da organizzare il resto del lavoro attorno a questo focus. Lo scopo di questa nuova didattica, conosciuta come PBL – Phenomenon Based Learning, è quello di dotare studenti e studentesse delle competenze necessarie per “fiorire nel 21esimo secolo” (Kirsti Lonka), diventando persone capaci di identificare quelle fake news di cui tanto si parla ultimamente, di evitare le trappole del cyber bullismo e di acquisite abilità tecniche basilari come installare un antivirus, un nuovo software o una stampante.

Se tradizionalmente l’apprendimento è diventato una lista di materie e di fatti da conoscere/imparare, nei casi migliori edulcorati da qualche nozione di cittadinanza, nella vita reale il nostro cervello non è costruito a compartimenti che ricalchino le varie discipline. Pensiamo invece in maniera olistica, e se ragioniamo sui problemi che affliggono il mondo contemporaneo (crisi globali, migrazioni, economia, era della post-verità) ci rendiamo presto conto che, se non li abbiamo noi, non stiamo nemmeno dando ai nostri figli gli strumenti per gestire la complessità di un mondo come quello in cui stanno crescendo. Accompagnare le generazioni di domani a credere che il mondo sia semplice e che, se imparano alcune nozioni fondamentali, siano “pronti per partire”, è un errore che potrebbero non perdonarci. Imparare a pensare e a capire sono invece abilità fondamentali e necessarie, che rendono il processo di apprendimento divertente, mentre promuovono benessere e fiducia in se stessi e nelle proprie capacità di leggere la realtà. E questo succede fin da piccoli, soprattutto andando a scuola, e soprattutto quando la scuola “ha il profumo di casa”. Per esempio come nell’Istituto comprensivo di Hauho, 40 minuti a nord di Hameenlinna: si lasciano le scarpe all’entrata, in alcune classi le sedie sono fitness balls, sulle porte sono fissate barre per le trazioni e i docenti vivono con scioltezza l’utilizzo dei cellulari in classe come opportunità di apprezzarne l’utilizzo quali strumenti di ricerca, non semplicemente come mezzi per comunicare con gli amici.

Non tutti però condividono questo approccio, temendo soprattutto un abbassamento degli standard raggiunti, e ovviamente l’idea che sottende al sistema PBL non nasconde alcune criticità: una di queste è il timore che non fornisca agli studenti un solido background che permetta loro di affrontare poi lo studio di determinate materie in maniera più approfondita. Potrebbe essere inoltre causa dell’aumento del divario tra studenti più e meno abili, un gap che in Finlandia, storicamente, è sempre stato molto contenuto: questa metodologia si dimostra infatti ottimale per gli studenti più brillanti, capaci di riconoscere il valore di questo tipo di educazione e di astrarre competenze da esperimenti concreti. Permette loro la libertà di imparare secondo la propria andatura e di fare il passo successivo al momento in cui si sentono pronti. Ma per gli alunni meno capaci di autogestirsi, questo approccio lascia troppa libertà quando invece avrebbero bisogno di una guida più forte che però, in alcuni casi, rischia di avere meno skills digitali dello studente che dovrebbe supportare.

La domanda che viene spontanea è allora: perché questo desiderio di cambiare la struttura di un sistema educativo che già ottiene ottimi risultati così come è attualmente impostato? Anneli Rautiainen, della Finland’s national agency for education, si rende conto delle preoccupazioni che possono emergere e ci tiene a sottolineare che questi cambiamenti vengono introdotti gradualmente, in modo da incoraggiare gli insegnanti a lavorare in questo modo e i ragazzi a farne esperienza. Nessun cambio di rotta radicale e improvviso quindi, ma il tentativo di includere alcune competenze nel modo di imparare a cui si è abituati. E quanto ai risultati?

Per il momento è ancora presto per valutare l’efficacia di questa correzione di rotta, ma di certo qualche caratteristica da segnalare della scuola finlandese c’è: gli insegnanti sono molto rispettati e la professione ben remunerata; il sistema scolastico è altamente centralizzato e la maggior parte delle scuole sono finanziate da fondi pubblici; i giorni di scuola sono brevi e le vacanze estive si stendono su 10 settimane; la media di studenti per scuola è di 195 alunni, 19 per classe circa; la popolazione è per lo più omogenea e a livello nazionale si rispettano profondamente attività come l’insegnamento e la lettura; e come altre nazioni, anche la Finlandia negli ultimi anni sta affrontando sfide significative in ambito finanziario e sociale (soprattutto per quanto riguarda i fenomeni migratori). Se per ora sembra che i cambiamenti introdotti riscuotano l’approvazione di ragazzi e genitori, il gradimento non è sufficiente a fare di questo approccio una certezza. Viene d’altronde spontaneo provare a immaginare se una virata analoga potesse funzionare anche in altri Paesi, compresa l’Italia, dove alcuni esperimenti in questo senso vengono messi in pratica, anche se per lo più da scuole private e su scala decisamente minore. Probabilmente una diffusa diffidenza nei confronti di un’innovazione didattica che non ha ancora dato risultati monitorati e chiari è tra le cause principali, senza contare che replicare un modello di questo tipo significa avere a disposizione insegnanti motivati con un’ampia capacità di supportare le attività proposte e dirigenti scolastici con significative capacità gestionali/organizzative per affrontare il cambiamento, caratteristiche non scontate nel mondo della scuola di oggi. Non ci resta che attendere per avere maggiori elementi, tenendo però presenti i riscontri fino ad ora ottenuti: decisivo miglioramento nel lavoro di squadra, nella comunicazione e nell’autogestione del lavoro.

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