Non c’è santo senza peccato, non c’è peccatore senza futuro (Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII).

Pensavo che certe cose accadessero solo in Italia, invece ho saputo che negli Stati Uniti c’è un uomo, nativo americano, che si chiama Leonard Peltier, prigioniero politico, condannato a vita e in carcere da ben 42 anni, con una motivazione controversa se persino Amnesty International nella sua relazione annuale del 2010 ha posto il suo caso sotto la categoria “probabilità sleale”.

Andrea De Lotto, attivista italiano che da tanti anni si batte per la sua liberazione, mi ha chiesto di dargli un po’ di voce nel nostro Paese. Forse per questo l’altra notte ho sognato un incontro con lui.

Entro in un lungo corridoio. Talmente profondo che sembra finire all’inferno. C’è un silenzio che prende allo stomaco. Sento solo il rimbombo dei passi delle guardie. Poi sbuco in un ampio salone a cerchio, sovrastato da una cupola. E con diversi cancelli attorno. Entro in quello con scritto a grandi caratteri “ Reparto Z”. Percorro un tunnel, lungo e stretto. Subito dopo sbuco in un altro corridoio, a forma di “Zeta”. Le guardie si fermano alla cella numero tredici. Uno di loro sposta il blindato accostato. L’altro tira fuori un mazzo di chiavi. Al volo sceglie quella giusta. E apre il cancello. Entro. E senza voltarmi lo sento chiudersi alle mie spalle. Ho subito la sensazione che quella cella mi aspettasse da anni. Forse ancora prima che nascessi. E sento che l’aria all’interno della cella è più calda di quella del corridoio. Mi guardo intorno e vedo davanti a me, seduto su uno sgabello, un uomo anziano. I nostri sorrisi s’incontrano prima dei nostri occhi. Lo sguardo dell’uomo è duro. Forse di uno che nella vita ne ha viste tante. Ci guardiamo l’un l’altro. I nostri occhi si capiscono, senza bisogno di parlare. E fanno subito un patto di alleanza. L’uomo sembra senza età. Ha i capelli lunghi. E tutti bianchi. Gli arrivano quasi fino alle spalle. Naso grosso. Denti regolari. Per un po’ rimaniamo in silenzio. Ci misuriamo con gli sguardi. Poi l’uomo si alza lentamente. Mi si avvicina. E con un sorriso mi allunga una mano. L’uomo ha uno sguardo penetrante. E odora di sapone di Marsiglia. Sta ancora qualche istante in silenzio. Poi parla:

Piacere.

Ci fissiamo ancora negli occhi. Leonard Peltier.

Per qualche lungo istante.

Nativo americano prigioniero dell’uomo bianco.

Entrambi sappiamo leggere negli sguardi.

Ergastolano.

Gli stringo la mano.

Piacere mio.

Mi presento a mia volta.

Carmelo Musumeci.

Sorrido.

Anch’io ergastolano.

Leonard scrolla le spalle. E aggrotta la fronte. Poi mi invita con un gesto della mano a sedermi. E sparisce dietro una porticina.

Ti faccio un buon caffè come solo io lo so fare.

Dove c’è un cesso alla turca e un lavandino. Il bagno fa anche da cucina, vi è incastrato un tavolino con sopra un fornellino da campeggio. Noto che l’uomo, nonostante l’età, si muove agilmente. E intanto che prepara il caffè, inizia a parlare. Mi sembri più giovane di me.

Con tono quieto.

Speriamo che non arrivi alla mia età.

E basso.

Se no ti farai più galera di me.

Per un attimo non capisco se parla con me o a se stesso.

Poi per sicurezza mi tocco le palle. Leonard sorride senza voltarsi.

M’immagino che ti stai toccando i coglioni, ma devi sapere che per molti ergastolani sarebbe meglio morire che vivere.

E mette la caffettiera sul fuoco.

Devi sapere che quando un ergastolano guarda un altro come lui, vede nei suoi occhi la sua stessa sofferenza.

Mentre lo ascolto inizio a esaminare la cella.

I detenuti chiamano questo maledetto posto l’Assassino dei Sogni, perché in galera per vivere devi sognare.

E penso subito che è troppo piccola per due persone.

L’Assassino dei Sogni è ghiotto dei sogni di noi prigionieri.

La cella è stretta.

E i sogni che piacciono più di tutti all’Assassino dei Sogni sono quelli che fanno gli ergastolani.

E corta.

Il carcere alla mia età è molto peggio di quello che pensi e di quello che immagini tu adesso.

Il soffitto è basso.

Io ne so qualcosa perché sono al quarantaduesimo anno di galera.

C’è un letto a castello da un lato.

Alla lunga dentro di noi non sopravvive più nessun sogno.

Due tavoli murati dall’altro lato.

Credimi, non c’è nessuna via d’uscita davanti a noi.

E accanto due lunghi stipetti.

L’unica possibilità che c’è rimasta per soffrire di meno è pensare come se fossimo già morti.

E due corti.

D’altronde un ergastolano non può fare altro che aspettare, aspettare sempre e aspettare ancora, fin quando il suo cuore non smetterà di battere.

Sopra la parete del cancello è murata una mensola.

Ti confido che questa mattina, come mi sta capitando sempre più spesso, ho pensato che cosa ci sto ancora a fare su questa terra, perché da qualche anno non riesco più a trovare dei buoni motivi che mi spingano ancora a vivere.

Sopra la mensola c’è una televisione.

Devi sapere che non riesco più a trovare nessuna ragione per vivere: giorni, notti, mesi e anni senza esistere.

La finestra è a due ante.

L’ergastolano vive al buio e pure di Dio non può vedere che la sua ombra.

Un’anta probabilmente non si può aprire tutta perché andrebbe a sbattere sul letto a castello.

Viviamo distaccati ed estraniati da tutti gli altri prigionieri, nel nostro mondo di solitudine e ombra.

La finestra ha anche doppie sbarre. Mentre l’uomo parla, penso che in quella cella c’è veramente poco spazio per muoversi.

Il carcere è un mondo di paura, solitudine e angoscia.

E quasi manca l’aria per respirare.

Persino le sbarre soffrono e piangono perché sono sbattute e picchiate tutti i giorni, per controllare se durante la notte le abbiamo segate.

C’è solo lo spazio per fare due passi.

Nel cuore di un ergastolano arriva solo l’eco della vita che è al di là dal muro di cinta.

Due avanti due indietro.

Qui viviamo in un mondo di sole ombre.

Leonard continua a parlare con tono fatalista.

E possiamo usare solo i nostri sogni per immaginare la realtà che c’è nel mondo dei vivi.

Fermo.

Il dolore di un ergastolano, che non tornerà mai libero, è come l’acqua di una fonte che non smette mai di sgorgare.

Profondo.

Per noi vivere è come bruciarsi senza riscaldarsi.

Con un ritmo da cantastorie come sanno fare solo i nativi americani.

Gli ergastolani non possono fare altro che stringere i denti e sopportare l’esistenza perché non abbiamo neppure il diritto di riposare dato che non siamo ancora morti. Mentre Leonard continua a parlare, continuo a osservare la tomba dove dovrei vivere anch’io.

Siamo come cadaveri in attesa di essere sepolti.

La pavimentazione è di cemento.

A differenza dei morti abbiamo la vita, ma che vita?

Le pareti sono abbastanza pulite.

L’ergastolo è peggiore della pena di morte perché, mentre i prigionieri defunti dormono e riposano sotto terra, gli uomini senza un fine pena si dannano l’animo sopra la terra.

Affrescate di bianco.

Devi sapere che siamo solo delle ombre in mano al destino.

C’è solo qualche scritta in bella calligrafia.

Quello che fa impazzire più di tutto è la mancanza di speranza.

Leggo la scritta più vicina a lui.

Sono quello che ho potuto essere… non quello che mi sarebbe piaciuto diventare.

E non capisco se è una citazione o qualche abbozzo di poesia.

Poi sento che Leonard mi dice che il caffè è pronto, ma non faccio in tempo a berlo che mi sveglio e mi accorgo di avere solo sognato di incontrare Leonard Peltier.

E mi metto a leggere una sua poesia:

 Nella notte ombrosa

A volte

nella notte ombrosa

mi faccio spirito.

Le mura, le sbarre, le inferriate si dissolvono nella luce

e io lascio libera la mia anima

e volo attraverso la profonda oscurità del mio essere.

Divento trasparente,

un’ombra luminosa,

un uccello fatto di sogni che canta dall’albero della vita.

Leonard Peltier