Identità sessuale, religione, condizionamenti familiari, libertà di scelta, discriminazione. Di questi e altri temi parliamo con Wajahat Abbas Kazmi, giovane pakistano attivista di Amnesty International e regista.

Sei arrivato in Italia a 14 anni e ora ne hai 31. Ci racconti il tuo percorso?

Mi sono trasferito in Italia nel 1999 al seguito dei miei genitori, con una decisione presa all’improvviso. Pensavo di fermarmi per una breve vacanza e invece sono rimasto a Brescia. La mia è una famiglia di classe media, sciita, piuttosto religiosa (mio padre era presidente della moschea sciita) e io mi sono adattato a questa atmosfera, anche se spesso c’erano piccole battaglie riguardo alle scelte di autonomia fatte da me e da mia sorella. Nel 2006 noi due siamo stati gli unici pakistani a condannare l’omicidio di Hina Saleem, uccisa dai parenti perché non voleva adattarsi alle usanze più tradizionali della comunità.

Anche se ero già sicuro della mia identità sessuale, non avevo modelli, né esempi di coppie gay da seguire e così ho accettato le pressioni familiari perché mi fidanzassi con una cugina. Mi sembrava una scelta obbligata, a cui non potevo sottrarmi, ma che ho cercato comunque di rimandare il più possibile. Intanto mi sono appassionato al mondo del cinema, ho fatto dei corsi e nel 2009 sono tornato in Pakistan, dove ho fatto l’assistente alla regia e ho scoperto il mondo LGBT (era la prima volta che sentivo questa parola). Ho conosciuto coppie gay e tutte quella realtà di cui in Italia ignoravo l’esistenza. La mia famiglia non approvava il mondo del cinema e della televisione, ma pensava che quella passione mi sarebbe passata in fretta, che fosse solo una fase.

Nel 2011 ho girato il lungometraggio “The Dusk” sulle persone scomparse in Pakistan, suscitando molte controversie e ho prodotto “The Blue Veins” e l’anno dopo “Massage for God”. Nel 2014 ho prodotto “Fatwa – The Final Verdict”, un film sulle ragioni della crescita del terrorismo religioso nel mondo e specialmente in Pakistan e sulle minoranze sciite e cristiane perseguitate dai fondamentalisti.  La censura e le minacce hanno impedito l’uscita del film e mi hanno costretto a tornare in Italia.

A quel punto ho capito che le cose che mi appassionavano non c’entravano nulla con un matrimonio combinato e ho fatto coming out con i miei genitori (al telefono, visto che erano tornati in Pakistan), spiegando che le donne non mi interessavano, che non volevo sposarmi e avevo un’altra vita. Per loro l’omosessualità era una malattia da curare e anche se il fidanzamento con mia cugina è finito hanno continuato a cercarmi altre donne.

Diventare attivista di Amnesty International mi ha dato il coraggio di uscire allo scoperto, di rompere i tabù che circondano l’omosessualità e così l’anno scorso, nel pieno delle manifestazioni e delle polemiche sulla legge per le unioni civili ho partecipato a un presidio a Milano con il cartello “Allah loves Equality”.

Da dove è sorta questa idea e che conseguenze ha avuto?

Volevo dare voce alle persone omosessuali musulmane e unire due cose in genere separate come l’Islam e l’omosessualità. Sotto sotto avevo un po’ paura, non di quello che stavo facendo ma di prendere le botte da qualcuno, soprattutto da qualche fratello musulmano. Pensavo che la cosa sarebbe finita con qualche foto su Facebook e invece oltre a critiche, prese in giro e insulti mi sono arrivati molti apprezzamenti e richieste di interviste. Ho portato quel cartello anche al Gay Pride, da solo, ma non ho mollato e quest’anno eravamo in dieci. E non solo al Pride di Milano, ma anche a Roma e a Brescia. Lottare per i propri diritti e uscire di casa contro ogni violenza è qualcosa che ormai mi scorre nelle vene. Ho usato la parola “uguaglianza” perché per me è fondamentale accettare le persone per quello che sono e rifiutare la violenza in generale, non solo quella contro le persone LGBT.

La cosa più bella è vedere i musulmani che discutono del tema omosessualità e Islam: magari la maggioranza è ancora critica, ma l’importante è che non sia più un tabù, che si sia iniziato a parlarne, che i giovani di seconda generazione possano avere una scelta, un’alternativa, cosa che alla loro età io non ho avuto.

E ora c’è anche il progetto di un film…

Sì. Ormai “Allah loves Equality” (Allah ama l’uguaglianza) non è più solo una campagna, ma anche un documentario sulle discriminazioni contro le persone LGBT in Pakistan, uno degli stati più omofobi del mondo, oggi anche attraversato da un crescente integralismo. Racconterà le storie delle persone LGBT pachistane, ma anche quelle dei tanti credenti musulmani (medici, giornalisti, attivisti per i diritti umani) che in nome della loro fede sfidano coraggiosamente ogni giorno l’intolleranza e il fanatismo religioso. Farà conoscere storie di tolleranza, di lotta all’integralismo e alla discriminazione e interpretazioni non omofobe delle fonti islamiche, quali il Corano e la Sunnah.

“Allah loves equality” è un’iniziativa nata all’interno del Grande Colibrì, un progetto di attivismo sui diritti delle minoranze sessuali nel sud del mondo sviluppato insieme a persone e associazioni in Italia e all’estero, realizzata grazie al sostegno di Fondo Samaria, di Arcigay Gioconda di Reggio Calabria e di Progetto Gionata e al patrocinio di tante altre realtà e associazioni.

In un primo crowdfunding sono stati raccolti 1.200 euro.  Puntiamo a raccoglierne 6.000 entro la fine di luglio e per questo chiediamo contributi al link http://sostieni.link/14720.

Al di là delle differenze di cultura, religione, orientamento sessuale e nazionalità, che cosa secondo te unisce tutti gli esseri umani?

I sentimenti. Quelli sono gli stessi dappertutto.