E’ passato poco più di un mese da quando, in una tranquilla domenica mattina di inizio maggio, Adama Kanoutè, un ragazzo di 31 anni proveniente dal Mali, ha deciso di togliersi la vita impiccandosi davanti ai passanti alla Stazione Centrale di Milano.  Domenica 18 giugno (grazie al contributo delle associazioni dei maliani in Italia, delle onlus che operano in Mali e del Comune di Milano), accompagnato da una delegazione di Abarekà (associazione che opera in Mali da circa 20 anni)  Adama ha potuto tornare nel suo villaggio natale a Dabaya.

Qui è stato accolto dai familiari, dai notabili, dal capo villaggio, dall’iman della moschea e da una folla numerosa venuta a dare il suo sostegno alla famiglia inebetita dal dolore per l’accaduto: un figlio può morire perché si ammala, perché ha un incidente, ma quando è lui a sceglierlo, questo proprio no, per i genitori è troppo! Il senso di colpa si impossessa di loro, li invade, li abita, diventa il loro carnefice e li  spegne lentamente, ogni giorno un po’ di più.

All’arrivo della salma tutti i presenti erano in lacrime e l’emozione ha raggiunto il suo apice:  un giovane partito in buona salute per assicurare un futuro migliore ai suoi cari si è suicidato di fronte all’impossibilità di raggiungere quel benessere tanto agognato, ha preferito la morte al fallimento dei propri ideali e delle proprie speranze.  Adama Kanaoutè lascia due mogli e 5 figli in condizioni di estrema povertà.

Il gesto di Adama, frutto della disperazione per l’impossibilità di soddisfare ormai da tempo i bisogni della sua famiglia, non è che uno dei tanti esempi del fallimento delle politiche di accoglienza. La sua storia drammatica purtroppo non è finita all’arrivo sulle nostre coste: da clandestino ha dovuto percorrere tutto l’iter dell’accoglienza, rimanendo  per più di un anno in un centro vicino a Modena, ha ottenuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ma purtroppo il lavoro, il tanto sospirato “posto di lavoro” per il quale aveva percorso migliaia di chilometri non è arrivato. E lui ogni giorno si sentiva sempre più solo e isolato, subissato dalle richieste di una famiglia numerosa e lontana che lo accusava di ingratitudine e di menefreghismo.

L’epilogo lo conosciamo ed era quasi scontato. La sua storia assomiglia a quella di tanti ragazzi  che qui in Italia stanno cercando  documenti, lavoro, libertà e dignità, un inserimento  a pieno titolo nella nostra società. Ma questo non è più possibile in un paese come il nostro, dove la disoccupazione è alta e stanno sparendo tutti quei diritti che la Costituzione ci dovrebbe garantire. Un paese dove molti dimenticano che i migranti sono  persone in cerca di una via d’uscita verso un nuovo mondo che possa accoglierli e permettere a loro e alle loro famiglie di vivere almeno dignitosamente. Un paese dove spesso e volentieri si sente dire che “non c’è la guerra nei paesi da cui i migranti provengono”, quindi questi ragazzi potrebbero “starsene a casa loro”.

Ebbene, non vi è una divisione in compartimenti stagni tra i motivi che spingono un uomo e una donna a fuggire dal proprio paese: nel mondo ci sono nazioni devastate e basterebbe fermarsi un attimo per capire che scappare a volte può davvero sembrare l’unica soluzione.

Che il gesto disperato di Adama serva almeno a farci riflettere e a non giudicare. Partiamo da qui per gettare le basi di una convivenza migliore.