“Vittime del nostro benessere”, con questo titolo la mostra fotografica Stefano Stranges documenta l’estrazione del coltan nelle miniere del Nord Kivu, la regione orientale della Repubblica Democratica del Congo. Scatti in bianco e nero che raccontano le storie di uomini-donne-bambini implicati in uno dei commerci ad oggi più fiorenti al mondo. Non per loro però.

I cunicoli delle miniere scavati “artigianalmente” nelle montagne a spezzare la vista di un paesaggio collinare africano dal verde paradisiaco, l’assenza di basici strumenti per la sicurezza a protezione del corpo dei minatori quali caschi, guanti, maschere, giacche impermeabili né tantomeno di sistemi atti al puntellamento delle pareti, assicurate da pannelli e assi di legno letteralmente “di fortuna”, i poveri villaggi creati vicino alle miniere in precarie condizioni esistenziali popolati da vedove-anziani-neonati che assistono impotenti alla morte di loro cari: questo è il Kivu. Le asfissie e i crolli frequenti seppelliscono nella montagna molti di questi minatori, per molti altri di loro si assiste invece inerti a una rapida morte per leucemie o altri tumori strettamente connessi alla radioattività della lega di columbite e tantalite estratta, ossia del coltan (termine coniato dalla combinazione dei nomi dei due minerali). Se non bastasse, gruppi di miliziani armati di kalashnikov intervengono di continuo nelle zone di estrazione per imporre il loro controllo sul commercio, facendosi strada con le armi da fuoco e con violenze indicibili, anche verso le donne e i bambini.

Questa realtà, ben conosciuta dai locali, non determina l’esaurimento delle file di disperati che si avviano a lavorare per l’estrazione del coltan, in assenza di sostanziali alternative per la sopravvivenza loro e delle proprie famiglie. Anzi, i minatori sono anche disposti (e obbligati) a pagare un pizzo sui minerali estratti agli uomini armati che presidiano i territori e che altrimenti non consentirebbero loro di scavare e di portare poi a spalla in città i sacchi da 30-40 Kg di preziosi minerali per la vendita. I soldi raccolti dai guerriglieri sono impiegati per acquistare nuove armi per continuare coi traffici illeciti o per ottenere maggiore potere, in un infinito loop di cui è difficile intravedere un termine. In realtà un tentativo in tal senso è stato fatto nel 2014 con la proposta della Commissione Europea, favorita dal mondo dell’associazionismo, di approvare un regolamento europeo che ostacolasse il commercio dei cosiddetti “minerali insanguinati”, ossia dell’estrazione di minerali in aree di conflitto che alimenta questa spirale di violenza e di gravi violazioni dei diritti umani. Tuttavia all’esame del Parlamento Europeo la proposta ha trovato un’accoglienza favorevole ma parziale venendo recepita l’obbligatorietà solo per i grandi importatori di metalli e dei loro materiali di grezzi, e dunque offrendo l’opportunità di un aggiramento della normativa, e rimandando poi l’approvazione della direttiva alla prossima primavera. Cattive notizie sulla questione provengono anche da oltreoceano, dove il neopresidente statunitense Donald Trump ha recentemente emesso un ordine esecutivo atto a cancellare la legge Dodd Frank del 2010 varata da Obama che, fra l’altro, imponeva alle imprese quotate in borsa che utilizzano nella loro produzione minerali provenienti da aree di conflitto di redigere rapporti dettagliati relativi al rigido controllo della filiera nel caso in cui questi minerali provenissero dalla Repubblica Democratica del Congo o dai Paesi confinanti.

E mentre le istituzioni europee prendono tempo, la mobilitazione sociale continua supportata dalle testimonianze di foto e video registrati in Kivu, che passano paradossalmente proprio attraverso quegli smartphone e quei PC prodotti da questo aberrante sistema. È di pochi mesi fa la conclusione della marcia Reggio Emilia-Bruxelles, che ha condotto John Mpaliza, l’attivista italo-congolese conosciuto come il “Peace Walking Man”, a marciare per mezza Europa per portare il suo messaggio di pace e chiedere all’UE di intervenire dinanzi ai massacri che si stanno compiendo nella città di Beni, in Kivu, sotto il silenzio della comunità internazionale. Anche questi assassini, un vero e proprio genocidio secondo alcuni testimoni, costituisce parte della lotta per accaparrarsi il controllo dei tanto preziosi minerali o anche una prosecuzione di quella pulizia etnica che ha trovato effettiva realizzazione in Ruanda nel 1994.

Una storia di violenza che è purtroppo diventata endemica e ripetitiva nella Repubblica Democratica del Congo dalla fine degli anni Novanta, quando il coltan iniziò a essere impiegato per la produzione di svariati materiali di alta tecnologia e divenne poi insostituibile soprattutto per gli smartphone. Da allora il nuovo commercio triangolare è stato costruito a partire dal processo dalla materie prime congolesi, le più abbondanti e “straordinariamente” a basso costo, al netto degli indicibili danni umani e ambientali, prosegue poi col trasferimento per la produzione nel Sud-Est Asiatico e la vendita in tutto il mondo, e si conclude infine nelle immense discariche di tecnologia ospitate sempre dall’Africa, in particolare dal Ghana, frutto del frenetico processo di consumismo tecnologico. Uno sfruttamento effettivamente globale e che solo mediante un pressante richiesta globale dal basso sarà possibile stroncare.

Miriam Rossi

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